Corona virus, accettare la sfida

La guerra del Corona virus non è una guerra. Direi, piuttosto, una sfida. Vediamo perciò di comprendere insieme i termini di questa sfida.

Al suo insorgere, effettivamente, la dimensione “epidemica” che di volta in volta coinvolgeva singoli paesi, metteva in campo dispositivi di intervento, e dunque forme di pensiero, riflesso di modelli ancora tradizionali. In un saggio del 2010, Byung-Chul Han rifletteva sugli scenari contemporanei rilevando il generale attardamento delle società, quelle occidentali in testa, su modelli desueti. Modelli che nella sua lettura riflettevano un paradigma “immunologico” non più capace di cogliere la complessità contemporanea. Di questa, infatti, ne sottolineava la sostanziale incompatibilità col precedente modello immunologico. I modelli del passato sono quelli di un’epoca che chiama “batterica” dove è essenziale la presenza di un “altro” contro il quale opporsi. Ma l’epoca contemporanea è piuttosto un periodo “virale”, un tempo, cioè, in cui non esiste più una distinzione netta tra interno ed esterno, tra amico e nemico. Tanto la sfera biologica quanto quella sociale, in sostanza, sono state caratterizzate da dinamiche di “attacco e difesa” che hanno trovato nell’Altro, nell’Estraneo il necessario opposto. Oggi “al posto dell’alterità abbiamo invece la differenza che non provoca alcuna reazione immunitaria”[1].

Questa riflessione ci aiuta a comprendere che se gli Stati nazionali, hanno cercato una medesima strategia consistente nella chiusura delle frontiere, è perché il modo di pensare della classe politica è ancorato agli schemi “immunologici” che in qualsiasi alterità/estraneità vedono un nemico da annientare. Stiamo parlando di forme istituzionali che hanno alle spalle otto secoli di storia, con il loro carico di eredità culturale ampiamente interiorizzata. In un recente articolo pubblicato sulle colonne de El País[2], Han riprende la sua tesi per mettere in evidenza la netta inferiorità con cui i paesi occidentali affrontano la diffusione del Corona virus in rapporto alle strategie ben più efficaci messe in atto in Asia. Dice esplicitamente che la chiusura delle frontiere rappresenta un tentativo disperato di esercitare la sovranità da parte degli Stati nazionali del Vecchio continente.

Ovviamente si tratta di una “sovranità” ormai priva di contenuto ed infatti risulta del tutto inutile, per cui, come sottolinea Han, servirebbe di più cooperare assiduamente tra Stati europei. Viene in mente un intervento di Bill Gates, quasi virale di questi tempi, che nel 2015 intervenendo ad una sessione dei TED talks[3], osservava come il mondo fosse in grande ritardo rispetto agli atteggiamenti fondamentali che dovrebbero definire una mentalità concretamente moderna. Il Mondo, diceva, pensa ancora alla guerra mondiale come all’evento da cui si crea la paura massima, ovvero la fonte di quella che Han, in termini immunologici, chiama la “negatività”. In realtà ciò che caratterizza gli scenari contemporanei sono le forme insidiose di rischio connesse agli stili di vita attuali. E rispetto a questi, le nuove crisi da cui attendersi enormi rischi sono proprio le epidemie. A sentirlo oggi, ci si rende conto della grande capacità visionaria di questo autentico uomo del futuro. E la sua esortazione, correttamente, era che gli Stati cooperassero per mettere su una forza d’intervento sanitario bene organizzata, composta con l’aiuto di tutti, pronta ad intervenire in quelle aree del globo dove dovesse insorgere un pericolo epidemico.

Ciò che richiama la mia attenzione è l’analisi di Han sulla maggiore efficienza dei paesi asiatici. Con numeri e informazioni alla mano, richiama il peso della tradizione del confucianesimo che ha lasciato nelle popolazioni asiatiche una maggiore disponibilità all’obbedienza e alla fiducia nello Stato. La prova di questa superiorità oggi consiste nel ricorso alla alleanza tra intervento sanitario e supporto tecnologico. In pratica, gli informatici sono coloro che hanno arginato l’eccessivo carico di lavoro che ovviamente, in caso di epidemia, ricade sul personale sanitario. Uno stretto controllo attraverso la gestione dei dati personali, una alleanza tra compagnie telefoniche, Stato e reti internet, ha permesso un controllo da remoto di tutte le popolazioni alle quali era stato imposto un regime di restrizioni che sono state rispettate da una parte per l’eredità culturale prima ricordata e dall’altro per l’efficienza operativa consentita dal sodalizio tra tecnologie e forze dell’ordine. Privacy, dunque, no problem.

Cessato il periodo di trincea della Cina, prima fra tutti a confrontarsi con il Covid 19 su larga scala, la Cina stessa ha iniziato a esportare il modello di intervento che abbiamo tracciato per grandi linee. Prima tra gli stati limitrofi, Corea, Giappone, Taiwan e poi in Occidente. Anello di congiunzione col mondo occidentale: l’Italia, con la sua grande crisi frutto essenzialmente di una capacità di intervento molto distante da quella cinese nonostante, seppure con altri criteri, sia stata da tutti definita ineccepibile. Attraverso l’Italia, grazie anche alle forme di solidarietà reciproca, il modello cinese penetra nel mondo occidentale ancora indifeso ed impreparato alla sfida col Corona virus. Di pari passo, dunque, con il mutamento del problema epidemico che si volge in pandemia, qualcosa del modello socio-culturale cinese entra e si espande in Occidente. Invisibile come il virus.

Anche Edgar Morin si è recentemente espresso sul problema che il mondo affronta in ordine sparso. E dopo aver descritto la situazione attuale osservando come il virus “penetra con sigilo”[4], furtivamente nella dimensione della realtà quotidiana, dice chiaramente che siamo davanti a “una nueva crisis planetaria de la humanidad en la era de la globalización”[5]. Anche lui osserva come gli Stati nazionali stiano inutilmente richiudendosi in se stessi e come l’ONU non pensi ad una concreta “alleanza mondiale”. Per il pensatore della “complessità” questo è chiaramente il frutto di un mondo la cui classe dominante è il risultato di strutture educative che normalizzano le persone, insegnando loro a pensare in modo frammentario, a conoscere per strade separate, lasciandosi coì sfuggire l’interconnessione necessaria che esiste tra tutti i livelli e le dimensioni del vivere, dal biologico al culturale, dal sociale all’economico. Scopriremo a nostre spese come aver separato le parti di quel tutto che è l’Umanità, ci condurrà verso perdite enormi.

Tanto Han quanto Morin auspicano che da questo scenario possa risorgere un senso di comunità, questa volta davvero globale, che possa far rifondare le società contemporanee su nuove basi e non mancano di sottolineare come lo stesso ambiente naturale possa trarre giovamento da questa crisi planetaria. Morin si augura che un miglioramento ecologico non debba costarci troppo in termini umani, mentre Han ci avverte che questa crisi non è una rivoluzione. Non possiamo credere che un evento casuale operi per noi un cambiamento di cui dovremmo essere responsabili in prima persona. Il virus ci avverte che il nostro individualismo ci perderà, a meno che non torniamo ad essere “persone” che usano la “ragione”, persone che sappiano superare gli attuali modelli sociali, iniqui ed ingiusti, che ci affliggono a livello mondiale.

Dal mio punto di vista, tuttavia, c’è ancora qualcosa da aggiungere. Gli Stati nazionali che in Occidente stanno dando una risposta apparentemente debole sul piano dell’efficacia operativa, sono un simbolo di una realtà antica, quella della civiltà mediterranea ed europea che ha inventato la democrazia e i diritti civili. Le strategie messe in campo sono la naturale conseguenza di una miopia nei riguardi del mondo dell’educazione che non ha saputo formare classi dirigenti con mentalità adatte ai nuovi paradigmi di una realtà che è già cambiata da molto tempo. Ma sono anche un tentativo di salvare le libertà civili di fronte alle sollecitazioni della pandemia che impone scelte con essenziali ricadute sul piano sociale e culturale. Non dobbiamo dimenticare che gli stessi Stati sono il terreno socio-culturale nel quale è sorta prima la scienza con il suo metodo riduzionista, poi la fiducia generalizzata in essa e infine la frammentazione dei saperi che ha prodotto cittadini inabili a comprendere la complessità della contemporaneità. Al contrario, i paesi asiatici sono espressione di una eredità che parla di imperi centralizzati e forme di autoritarismo incompatibili con l’evoluzione civile che rappresenta la difficile ma eccelsa storia dell’Occidente. Partono, cioè, da un punto di vista totalizzante (visione imperialista) rispetto a quello parcellizzante (visione regionalista) del mondo europeo. Con vantaggi e svantaggi. E dovremo essere capaci di vedere entrambi questi aspetti, senza lasciarci abbagliare, nel momento del bisogno, da derive che non guardano alla comprensione del tutto ma al suo possesso e controllo. Che è quello che, ai miei occhi, avviene per esempio in Cina dove non esistono le libertà fondamentali o non esiste una reale garanzia di esse pur dietro l’apparenza della loro millenaria gentilezza dei modi.

Per come la vedo io, dunque, in questi mesi assistiamo ad una sfida tra un riverbero centralista che amplifica la fiducia in forme di Stato autoritario ed una visione sanamente liberale che ricerca soluzioni compatibili con la tutela delle conquiste della Civiltà mediterranea. Da questo punto di vista, dunque, ciò che stanno facendo Italia e altri paesi europei è sostanzialmente una difesa dei valori della democrazia compatibile con la garanzia del diritto alla salute. Gli scenari asiatici, di controllo remoto di ogni singolo cittadino, pur con l’apparente garanzia dell’anonimato con cui la Corea ha messo a punto una app specifica, sono impensabili per noi. E impensabili devono restare. Occorre però saper leggere anche al di là della scena su cui i politici, nazionali ed europei, rilasciano le proprie dichiarazioni. Giusto per capire che il vero pericolo, più grande del virus che in qualche modo passerà, è tutto dentro la testa delle classi dirigenti, limitatamente alle loro capacità di comprendere quel che accade e, soprattutto, a causa del condizionamento degli interessi che essi cercheranno di perseguire approfittando della crisi. In questo senso, sono le persone comuni che possono fare la differenza, l’antidoto al virus, cercando di fare tesoro di quel senso di solidarietà umana che stanno riscoprendo costretti dalle limitazioni delle libertà personali. Se sulla scorta di una emergenza sanitaria – che, fuori dalle considerazioni emotive, non è la tragedia che i media fanno intendere ma il dramma che dovrebbe guidarci a comprenderne il senso profondo – prevarrà la fiducia in modelli autoritari, allora le democrazie occidentali subiranno deviazioni pericolose verso nuovi e più stringenti nazionalismi. Prodromici a nuovi regimi. L’Unione europea che non ha ancora compreso ed assorbito la brexit, subirà un colpo forte e forse letale. Se invece dalla crisi sanitaria usciremo consapevoli che se non siamo ancora riusciti ad avere un esercito comune è perché di fatto è inutile, e prenderemo la decisione invece di costruire un sistema sanitario comune come ipotizzato da Bill Gates, allora grazie al virus ci saremo evoluti.

Il Covid 19, in sostanza, ci pone davanti ad una sfida tra una regressione civile e politica ed una opportunità di evoluzione. Ci troviamo adesso dentro un panorama in cui il virus, per il noto difensore dei diritti civili in Ungheria, Andras Biro, rappresenta una metafora della “scomposizione delle società”. In una recente chiacchierata a distanza, questo caro amico che possiede la saggezza dei 95 anni, pensa che “in questa epoca di globalizzazione ci avviciniamo ad uno stato di caos per la mancanza di rispetto alla Madre Terra”. In perfetta sintonia col suo amico Edgar (così chiama Morin quando parliamo di complessità). La scelta è nelle mani delle persone comuni, della “gente”. Se sapremo ricordare il sentimento di impotenza che abbiamo dovuto sperimentare in questi mesi e, per ciò, apprezzare ciò che diamo per scontato da troppo tempo, allora una nuova era sociale potrà rifondare i modelli capitalistici che hanno di fatto instaurato un regime del Capitale che ha soggiogato la vita, l’identità e la coscienza delle persone. Il virus, dovrebbe averci fatto assaporare il valore di cose che abbiamo ricevuto senza batterci per esse, la perdita temporanea dei nostri diritti civili è una dimostrazione di quello che Heidegger chiamava “valore presentificante dell’assenza”. Ora, la difesa della democrazia, tocca a noi e per farlo dovremo compiere una “metamorfosi” nel senso che annunciava sempre Morin in un articolo pubblicato su Le Monde nel gennaio del 2010[6]: “L’idée de métamorphose, plus riche que l’idée de révolution, en garde la radicalité transformatrice”. Non occorre pensare a rivoluzioni violente e forse nemmeno pacifiche, piuttosto sfruttare l’opportunità che sempre resta nascosta dietro una grande crisi o, come lui stesso dice elencando le cinque speranze per una nuova Via[7]: “La chance suprême est inséparable du risque suprême”[8]. Cosa occorre fare? “il nous faut nous dégager d’alternatives bornées, auxquelles nous contraint le monde de connaissance et de pensée hégémoniques” perché solo liberandoci dalle strettoie del pensiero egemonico troveremo il modo di attuare “le grand retour à la vie intérieure et au primat de la compréhension d’autrui, de l’amour et de l’amitié”[9]. Ogni democrazia si regge da una parte per l’esercizio di un potere che si suppone esercitato sulla base di principi costituzionali, ma dall’altro sulla cosciente e fattiva partecipazione del “popolo”, termine che dà origine al alla parola stessa di democrazia. Non è solo un problema di scelte politiche, ma di stili di vita, se improntati o no all’esercizio del senso critico o alla assuefazione mediatica che fa delle teste pensanti delle scatole obbedienti, da accontentare con prodotti sempre nuovi. È tempo di scegliere.

[1]          La società della stanchezza, 2010.

[2]          https://www.lavaca.org/portada/byung-chul-han-sobre-coronavirus-la-emergencia-viral-y-el-estado-policial-digital-por-que-la-revolucion-sera-humana/

[3]          https://www.youtube.com/watch?v=6Af6b_wyiwI

[4]          “Lo que el coronavirus nos está diciendo”, www.climaterra.org.

[5]          Ivi.

[6]          https://www.lemonde.fr/idees/article/2010/01/09/eloge-de-la-metamorphose-par-edgar-morin_1289625_3232.html

[7]          L’articolo preannunciava i contenuti ampiamente e sistematicamente sviluppati subito dopo in La Voie, Gallimard 2011, ed. it. Raffaello Cortina 2012.

[8]          Le Monde, cit.

[9]          Ivi.

3 risposte a “Corona virus, accettare la sfida”

  1. Una riflessione molto lucida e condivisibile..Adesso il coinvolgimento emotivo e la destabilizzazione dovuta al cambiamento radicale della nostra quotidianita’ ci fa perdere di vista il dopo,quando questa crisi sara’finita ,e’ su quello che ci aspetta dovremmo interrogarci.La crisi ci sta cambiando e ci cambiera’ ma come ?,cosa prevarra’ ?chiusura ,diffidenza e cieca assuefazione alla perdita della nostra liberta’ in emergenza o apertura,senso di comunita’ e responsabilita’? IL futuro ,dopo quello che ho visto accadere, mi preoccupa di piu’ del presente.

  2. En estos tiempos de crisis me esperanza saber que existen más pensadores de la complejidad que intentan resonar con palabras como la de tu artículo para invitarnos a reflexionar…
    Cómo plantea Morin esperemos que esto nos lleve a una metamorfosis, ya no más a un cambio o a otra revolución! Esos tiempos pasaron, tal vez el mayor de los desafíos es dejar de mirar hacia afuera, hacia otros y comprender de una vez que lo que está pendiente es METAFORMOSEARNOS…

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