Sono stato a Palermo pochissimi giorni durante le vacanze agostane. Un giorno passando per via Trinacria questo edificio attira la mia attenzione. Mi fermo. Penso. Finalmente ricordo.
Quando eravamo tutti bambini qui c’era una palestra. Ci si era iscritta Danila. A quel tempo la famiglia era un piccolo universo fatto di genitori e zii, di fratelli e cugini. Ci si vedeva, ci si scambiava visite e se si passava sotto casa di un membro della famiglia si citofonava. Qualcuno in casa c’era. Le case allora vivevano con noi. Oggi le lasciamo vuote, nel silenzio di se stesse, impegnati tutti altrove con qualcosa che sembra importante ma che se ci pensi non lo è poi tanto. E si parlava. Così mia madre sapendo di questa novità un giorno volle vedere di cosa si trattava e se anche noi potevamo iscriverci.
Mio fratello ed io eravamo piccoli, io più di lui. Sembra un fatto scontato, ma la differenza di età stabiliva gerarchie e dava priorità quando i genitori sapevano che essere genitori era una responsabilità da sostenere con rigore e senza paura. Così andammo tutti e tre. Mio fratello Maurizio avrebbe fatto una prova. Io avrei osservato. Probabilmente avrei dovuto aspettare un anno, il tempo che mi serviva per raggiungere l’età di mio fratello prima di poter fare altrettanto. Allora funzionava così.
Ricordo quel pomeriggio come si ricordano le cose normali che però si fissano nella memoria infantile che è un cantuccio della nostra mente. Nostra cugina era già una adolescente mentre noi eravamo ancora bambini. Quando terminò la lezione, mia madre condusse mio fratello nello stesso spogliatoio dove Danila e le altre ragazze del turno pomeridiano si docciavano e si cambiavano.
Quando fummo di nuovo tutti e tre insieme per fare strada verso casa, mia madre Carolina – ma da ragazza le dicevano Pupa – interrogò mio fratello per sapere se gli fosse piaciuto. Lui disse che sì, ma non aveva la faccia convinta. Come ogni bambino avrebbe preferito giocare all’aperto come eravamo abituati a fare dato che sotto casa potevamo godere di una grande piazza dove ogni pomeriggio passavamo ore a giocare a calcio o ad aspettare di giocare a calcio quando lo spazio era occupato da ragazzi più grandi.
Prima di rientrare a casa, mia madre disse che dovevamo comprare il pane e così passammo dal panificio Puccio sotto i portici. Mio fratello ed io aspettavamo fuori. Lui guardò dentro il negozio come per assicurarsi che poteva parlare senza che nostra madre lo sentisse. Quasi sotto voce mi si avvicinò e mi confessò: “Ho visto le ragazze nude”. Io lo guardai con sincera ammirazione. Era per me il fratello maggiore ed era giusto che avesse cose da grandi che facessero la differenza tra lui e me. Restai con gli occhi sgranati e la bocca aperta. Il mio silenzio era la garanzia che avrei mantenuto il segreto.
Quando tornammo a casa ci venne incontro nostra sorella Marinella – che però sempre ha voluto che la chiamassimo solo Marina. Era la piccola di casa, almeno fino a quando non arrivò Roberta che anche oggi, che ha raggiunto il mezzo secolo, per noi è la piccola di casa. Aveva aperto la porta mio padre Giuseppe – che però era per tutti Pino. A quel tempo mi sembrava un gigante. Quando vidi Marina che si intrufolava in avanti passando dentro le gambe di nostro padre, mi sentì anche io grande. In famiglia c’era qualcuno più piccolo di me. Ma a darmi quella sensazione, credo fu il semplice fatto che ora avevo un segreto da grandi che mi aveva regalato mio fratello.