In epoca di rigurgiti nazionalisti, sempre sintomo di decadenza sociale e impoverimento intellettuale, colpisce l’entusiasmo popolare che assimila gente comune e alti rappresentanti istituzionali in occasione di competizioni sportive in cui le nazioni si affrontano con i loro migliori uomini.
Si svolgono in contemporanea i campionati mondiali per settori geografici: la coppa Europa e la coppa America. Una specie di preliminare dei prossimi mondiali di calcio per i quali già si scaldano i motori. Ogni partita inchioda al televisore milioni di persone accomunate tutte dal desiderio di cantar vittoria come popolo, patria e nazione contro un altro popolo, patria e nazione. I colori delle rispettive bandiere occupano luoghi pubblici e privati nelle fasi di attesa e trepidazione, almeno fino al momento in cui non si viene eliminati. Se al contrario si vince e si va avanti verso la finale, le bandiere aumentano, gli inni si ripetono, urla di accanimento nazionalista e patriottico risuonano per ogni dove.
La nostra domanda è: Che ce ne facciamo delle nazionali (anzitutto di football)? Nel 2024, in piena epoca di globalizzazione, in un mondo che non ha più distanze né confini, che senso ha ancora questo fanatismo che nello sport trova un travestimento lecito? Politica e politically correct, educazione e scuole, movimenti sociali e socialismi di ogni ordine e grado si preoccupano giornalmente di formulare dichiarazioni sul pubblico scenario inneggiando all’inclusione, la tolleranza, l’abbattimento delle barriere. Poi, però, tutti davanti al televisore a rinforzare le pseudo identità collettive che nei fenomeni di massa incontrano sempre le scorciatoie più fragili e pericolose.
Come possiamo ritenerci coerenti se da un lato diciamo l’esatto contrario di ciò che facciamo dall’altro? A mio modo di vedere si tratta di un paradosso che dovrebbe farci pensare. Prendo a titolo di esempio una delle nazionali più note nel mondo per lo spirito nazionalista, la Francia. A lottare per la conquista del titolo europeo hanno mandato undici giocatori. Vediamoli:
Maignan, padre francese diella Guyana e madre haitiana;
Koundé, madre francese e padre del Benin;
Upamecano, famiglia della Guinea-Bissau;
Saliba, padre libanese e madre camerunense;
Theo Hernandez, famiglia paterna originaria della Spagna;
Kanté, genitori del Mali;
Tchouameni, genitori camerunensi;
Rabiot, francese doc;
Dembiele, padre del Mali e madre da Senegal-Mauritania;
Kolo Muani, famiglia del Congo;
Mbappé, famiglia del padre camerunense, famiglia della madre algerina.
Agli ottavi di finale dopo la vittoria contro i cugini del Belgio, in Francia si udiva la Marsigliese in ogni quartiere di ogni città. Quale sarebbe il senso di un inno la cui origine è legata al Chant de guerre pour l’Armée du Rhin (Canto di guerra per l’Armata del Reno)? Una formazione come quella che abbiamo visto, può cantare con coscienza e orgoglio autentici l’inno dell’identità nazionale francese per celebrare la vittoria di una partita di calcio? soprattutto se ottenuta da una formazione di extra europei? può un solo francese giustificare una identità che nega quella degli altri dieci giocatori? In questo modo non si finisce per tacere il valore che nello stesso campo da calcio, nella stessa partita, hanno espresso gli altri paesi che hanno dato i natali ai giocatori extra europei della stessa nazionale?
Il caso non è per nulla esclusivo della Francia che qui vale solo da esempio, si tratta di una situazione abbastanza generalizzata da indurre il dubbio se la concessione della cittadinanza agli emigrati in cerca di un futuro migliore non finisca con il tradursi in un assoggettamento a una identità “altra”. Il Camerun, il Mali, il Congo e tanti altri paesi che normalmente non contano molto sullo scenario internazionale, come possono trarre beneficio dalle vittorie che i loro figli conquistano vestendo (costretti a vestire in quanto migranti per bisogno) la maglia di altre nazioni?
Ovviamente qui il tema è più complesso del semplice riferimento alle nazionali di calcio e si collega a quanto ho scritto in un articolo precedente (https://giampierofinocchiaro.com/io-sto-con-orlando-una-petizione/#more-904 ) in cui sostenevo che la storia dell’Uomo è storia di migrazioni e che sia diritto universale di chiunque migrare per cercare un futuro migliore. Il dibattito sulla emigrazione che coinvolge tutto il mondo sviluppato non può stare sul piano del “permesso” ad entrare in un paese altro, ma dovrebbe esclusivamente porsi su quello della “accoglienza” in civile convivenza nel rispetto delle regole del Paese ospitante e nel rispetto della identità dell’ospite. Senza giungere a forme di subalternità culturale come vedo un po’ dovunque per via di posizionamenti dettati dal politically correct.
Prendiamo in esame un altro caso, quello della Svizzera (ma potremmo anche dire della Spagna, dell’Inghilterra, etc.) che ha eliminato la non brillante Italia che da detentore del titolo ha lasciato gli europei in modo poco gradito ai cittadini tifosi e nazionalisti.
Mvogo, camerunense naturalizzato svizzero;
Sommer, svizzero DOC;
Schar, svizzero DOC;
Akanji, padre nigeriano, madre svizzera;
Rodriguez, famiglia cilena;
Aebischer, svizzero DOC;
Freuler, svizzero DOC;
Xhaka, famiglia albanese;
Rieder, svizzero DOC;
Vargas, famiglia dominicana;
Embolo, famiglia del Camerun;
Ndoye, padre senegalese e madre svizzera.
Meno della metà della squadra è formata da cittadini svizzeri e non si dimentichi che parliamo di un paese che già di per sé è diviso fra cellule di identità nazionali diverse: ventisei cantoni tedeschi, due italiani, sei di lingua francese e uno di lingua romancia. Anche qui: quale sarebbe il senso di una nazionale svizzera? Che identità svizzera può esprimere un paese connotato da tanta diversità di identità per nazione di provenienza e/o appartenenza storico-culturale?
Le cose forse vanno un po’ meglio dall’altra parte del mondo dove l’abbondanza di giocatori provenienti dagli slums permette di avere formazioni autoctone. Se prendiamo una delle nazionali col maggior vivaio di giovani talenti al mondo, l’Argentina, la sua formazione presenta sempre alcuni elementi di origini per lo più italiane e spagnole. Non occorre indagare per capire da dove vengono cognomi come Tagliafico (origini genovesi), Messi (marchigiano sia da parte di padre che di madre) o Scaloni (di Ascoli Piceno) che vanta addirittura la doppia cittadinanza italo-argentina. Ma il fatto è che ciò che caratterizza questo paese sudamericano, fin dalla sua fondazione a opera del Presidente Mitre, è quello che i locali chiamano “mezcla”, un misto di genti provenienti da tutto il mondo come il titolare Mac Allister (padre scozzese e madre italiana).
E che dire del Canada che in questa edizione della coppa America si è spinto fino alle semifinali? Come già per la Svizzera, anche in questo caso l’identità nazionale conta su più di un’anima, una di lingua inglese e una di lingua francese, ciascuna con le proprie peculiari differenze di sensibilità socio-culturale. Vediamo la loro formazione: Crepeau è un canadese dell’area francofona del Quebec; anche Johnston è canadese ma proviene dalla zona della Columbia britannica. Bombito ha genitori congolesi; il padre di Cornelius viene dalle Barbados ma la madre è inglese; Davies è nato in un campo profughi del Ghana da una famiglia della Liberia fuggita dalla guerra civile; Osorio ha famiglia colombiana; Eustachio ha cittadinanza portoghese per la provenienza familiare; Laryea non so da dove viene, ho raccolto le mie informazioni con una semplice interrogazione dei motori di ricerca, ma il colore della sua pelle dice senza dubbio che la provenienza non è nordamericana; David ha genitori haitiani; Shaffelburg non so che origini abbia, non ho trovato nulla sul web, ma nel suo caso il cognome sembra indicare una provenienza tedesca. Per ultimo Cyle Larin che risulta essere il miglior marcatore di sempre della nazionale canadese. Anche per lui il web non regala informazioni a una rapida indagine, ma nel suo caso è il colore della pelle a dirci che il suo codice genetico viene da luoghi distanti dal freddo canadese.
In sintesi: che nazionali sono le nazionali oggi? Dovremmo chiederci cosa sono diventate in un tempo definito dalla globalizzazione, fenomeno di cui non terminiamo di prendere coscienza fino in fondo e con coerenza. Sono forse il segno di ciò che un noto antropologo italiano, Francesco Remotti, chiama “ossessione identitaria” (2010)? Proprio lui ci spiega come la società umana sia una rete relazionale che si articola in gruppi di “noi” dominati dal perseguimento di interessi particolari. Aggiungo che la modalità che caratterizza la relazione tra i “noi” è tendenzialmente conflittuale, se la storia ci insegna qualcosa. In questa prospettiva si coglie il senso che caratterizza l’indagine di Remotti che giunge a chiedersi se le identità (collettive) siano davvero necessarie o se non siano più che altro foriere di problemi e ostilità che impoveriscono le relazioni umane e impediscono lo sviluppo di progetti comunitari.
Se dunque, quando diciamo “nazionale”, come di solito avviene, intendiamo un aggettivo che sottintende “identità”, forse dovremmo considerare la tesi di Remotti secondo il quale “identità è una parola avvelenata”. Vale la pena precisare che il termine qui e nell’analisi dell’autore citato si appoggia alla sua dimensione collettiva e lascia fuori quella individuale dove invece mantiene un valore positivo fondamentale per il benessere personale e collettivo.
Quando ascoltiamo i tifosi gridare “abbiamo vinto” che cosa si comprende? Il mondo è pieno di migliaia di milioni di persone che si sono immaginate parte di un “noi” a cui non appartengono. Ma a vincere la partita sono stati undici giocatori che nella maggior parte dei casi non fanno parte del “noi” che pensano i tifosi né del “noi” che intendiamo quando parliamo di nazione nel senso di identità profonda e condivisa. Non dal punto di vista sostanziale, dato che formalmente devono esserlo per far parte di una nazionale. Ma come dicevamo: basta una cittadinanza per fare di un extra europeo un europeo? Agamben (Medios sin fin, 2001) osserva che la nazione-stato trasforma l’atto di nascere in un luogo (evento del tutto casuale) in fondamento della propria sovranità. Significa che la partecipazione della nazionale di calcio (o di qualunque altro sport) a un campionato internazionale ha il valore di una riaffermazione della propria sovranità e, aggiungo, della legittimità della separazione dall’Altro, del distanziamento dall’Altro, chiunque esso sia.
Certo i figli di terza generazione e più possono magari vantare un buon grado di integrazione culturale per essere nati e cresciuti nel paese dove emigrarono i progenitori, ma chiunque abbia un poco di dimestichezza con le comunità con radici in altri luoghi rispetto a quello di residenza sa che il territorio di provenienza familiare marca in modo profondo l’identità delle persone. E questo significa che spenti i riflettori del campionato, tutte le società tornano a esprimere i conflitti interni non risolti e provenienti appunto dalla diversità di provenienza nazionale dei propri cittadini. Si comprende perché Bauman definiva la identità nazionale “un impasto di problemi” in quanto “convenzione socialmente necessaria” (Identidad, 2010). Le nazionali di calcio sono “necessarie” per riaffermare le divisioni che generano i problemi che inutilmente cerchiamo di risolvere. In sintesi – ma non credo che nessuno si stupisca – il calcio è un circo del potere che fa venire in mente le riflessioni di Baudrillard quando scrive che oggi il potere mondiale si afferma attraverso “l’influenza della simulazione, una simulazione operativa di tutti i valori, di tutte le culture” (Por que todo no ha desaperecido aùn? 2009) e che esso stesso non è che una parodia dei valori. Basta osservare il comportamento, la reazione, ascoltare il linguaggio dei tifosi in occasione di una partita internazionale per comprendere che non vi sono valori veramente condivisi.
Concludo con una proposta: per fare qualcosa di concreto per superare le barriere e gli orrori che i nazionalismi portano nel proprio DNA, oggi che a mio avviso non c’è più ragione né bisogno di perpetuare questa forma ideologica di pensare l’identità, potremmo abolire i campionati con le nazionali e puntare invece sulle competizioni per club. Quando vedo i tifosi del Milan o dell’Inter, del Boca o del River, del Manchester o del Liverpool, del Bayern o del Borussia gridare all’impazzata per la vittoria della loro squadra del cuore, vedo l’immagine del tempo che viviamo realmente, quello in cui ci si abbraccia senza dare nessuna importanza alla diversità dell’altro. Esultare per i propri idoli sapendo che uno è del tuo stesso paese ma gli altri vengono da ogni lato del mondo, questo è già il futuro migliore di cui sempre parliamo ma che poi non abbiamo il coraggio e la coerenza di costruire e affermare.
¿Qué hacemos con las selecciones nacionales?
En una era de resurgimiento nacionalista, siempre síntoma de decadencia social y empobrecimiento intelectual llama la atención el entusiasmo popular que asimila a la gente común y corriente y a los altos representantes institucionales con motivo de las competiciones deportivas en las que las naciones compiten con sus mejores hombres.
Al mismo tiempo se celebran los campeonatos del mundo por sectores geográficos: la Copa de Europa y la Copa América. Una especie de preliminar del próximo Mundial, para el que ya se están calentando motores. Cada partido atrae a millones de personas a la televisión, todas unidas por el deseo de celebrar la victoria como pueblo, patria y nación contra otro pueblo, patria y nación. Los colores de las respectivas banderas ocupan lugares públicos y privados en las fases de espera y trepidación, al menos hasta el momento en que alguna es eliminada. Si, por el contrario, se gana y se pasa a la final, las banderas aumentan, los himnos se repiten, los gritos de furia nacionalista y patriótica resuenan por doquier.
Nuestra pregunta es: ¿Qué hacemos con las selecciones (especialmente del fútbol)? En 2024, en plena globalización, en un mundo que ya no tiene distancias ni fronteras, ¿qué sentido tiene todavía este fanatismo que encuentra en el deporte un disfraz legítimo? La política y lo politically correct, la educación y la escuela, los movimientos sociales y los socialismos de todos los órdenes y grados se preocupan diariamente de formular declaraciones en la escena pública alabando la inclusión, la tolerancia y la ruptura de barreras. Luego, sin embargo, todos se ponen delante de la televisión para reforzar las pseudo-identidades colectivas que, en los fenómenos de masas, siempre encuentran los atajos más frágiles y peligrosos.
¿Cómo podemos considerarnos coherentes si por un lado decimos exactamente lo contrario de lo que hacemos por el otro? En mi opinión se trata de una paradoja que debería hacernos reflexionar. Tomo como ejemplo una de las selecciones más famosas del mundo por su espíritu nacionalista, Francia. Enviaron a once jugadores a luchar por el título europeo. Veámoslos:
Maignan, padre francés originario de Guyana y madre haitiana;
Koundé, madre francesa y padre beninés;
Upamecano, familia de Guinea-Bissau;
Saliba, de padre libanés y madre camerunesa;
Theo Hernandez, familia paterna originaria de España;
Kanté, padres de Mali;
Tchouameni, padres cameruneses;
Rabiot, un “auténtico” francés;
Dembiele, padre de Mali y madre de Senegal-Mauritania;
Kolo Muani, familia del Congo;
Mbappé, familia de padre camerunés, familia de madre argelina.
En octavos de final, tras la victoria contra los primos belgas, en Francia la Marsellesa se podía escuchar en todos los barrios de todas las ciudades. ¿Cuál sería el significado de un himno cuya origen está anclad al Chant de guerre pour l’Armée du Rhin (Canción de guerra para el ejército del Rin)? ¿Puede una formación como la que vimos, cantar el himno de la identidad nacional francesa con auténtica conciencia y orgullo para celebrar la victoria de un partido de fútbol? ¿Especialmente si se obtiene de una formación de no europeos? ¿Puede un solo francés justificar una identidad que niega de los otros diez jugadores? ¿De hacer asì, no se termina ocultando el valor que otros países, que dieron origen a jugadores no europeos de la misma selección nacional, han expresado en el mismo campo de fútbol, en el mismo partido?
El caso no es en modo alguno exclusivo de Francia, que aquí sólo sirve de ejemplo, sino que es una situación lo suficientemente generalizada como para plantear la duda de si la concesión de la ciudadanía a los emigrantes en busca de un futuro mejor no acaba traduciéndose en el sometimiento a una “otra” identidad. ¿Cómo pueden Camerún, Malí, Congo y muchos otros países, que normalmente no cuentan mucho en la escena internacional, beneficiarse de las victorias que logran sus hijos vistiendo (obligados a vestirse como inmigrantes por necesidad) la camiseta de otras naciones?
Obviamente aquí el tema es más complejo que la simple referencia a las selecciones nacionales de fútbol y está conectado con lo que escribí en un artículo anterior (https://giampierofinocchiaro.com/io-sto-con-orlando-una-petizione/#more-904 ) en el que sostenía que la historia del Hombre es la historia de la migración y que es el derecho universal de cualquier persona. migrar en busca de un futuro mejor. El debate sobre la emigración que involucra a todo el mundo desarrollado no puede situarse en el nivel del “permiso” para entrar en otro país, sino que debería centrarse exclusivamente en el de la “acogida” en una convivencia civil, respetando las normas del país de acogida y respetando la identidad del anfitrión. Sin llegar a formas de subordinación cultural como veo en casi todas partes debido a posicionamientos dictados por el politically correct.
Examinemos otro caso, el de Suiza (pero también podríamos decir España, Inglaterra, etc.) que eliminó a la no brillante Italia que, como detentor del título, abandonó la copa de una manera que no fue apreciada por los ciudadanos, aficionados y nacionalistas.
Mvogo, camerunés naturalizado suizo;
Sommer, original suizo;
Schar, original suizo;
Akanji, padre nigeriano, madre suiza;
Rodríguez, familia chilena;
Aebischer, original suizo;
Freuler, original suizo;
Xhaka, familia albanesa;
Rieder, original suizo;
Vargas, familia dominicana;
Embolo, familia de Camerún;
Ndoye, padre senegalés y madre suiza.
Menos de la mitad del equipo está formado por ciudadanos suizos y no olvidemos que estamos hablando de un país que ya está dividido entre células de distintas identidades nacionales: veintiséis cantones alemanes, dos italianos, seis francófonos y uno de idioma romanche. También en este caso: ¿qué sentido tendría una selección suiza? ¿Qué identidad suiza puede expresar un país caracterizado por tal diversidad de identidad por nación de origen y/o filiación histórico-cultural?
Las cosas tal vez estén un poco mejor en el otro lado del mundo, donde la abundancia de jugadores provenientes de los barrios marginales permite la creación de equipos nativos. Si tomamos una de las selecciones con el mayor vivero de jóvenes talentos del mundo, Argentina, su selección siempre cuenta con algunos elementos de origen mayoritariamente italiano y español. No hace falta investigar para entender de dónde proceden apellidos como Tagliafico (de origen genovés), Messi (de la región Marche tanto por parte paterna como materna) o Scaloni (de Ascoli Piceno), que incluso ostenta la doble ciudadanía italo-argentina. Pero lo cierto es que lo que caracteriza a este país sudamericano, desde su fundación por el presidente Mitre, es lo que en Argentina llaman “mezcla”, una mezcla de gente de todo el mundo como el jugador Mac Allister (padre escocés y madre italiana).
¿Y Canadá, que llegó a semifinales en esta edición de la Copa América? Como para Suiza, también en este caso la identidad nacional tiene más de un alma, una anglófona y otra francófona, cada una con sus propias diferencias peculiares en sensibilidad sociocultural. Veamos sus miembros: Crepeau es un canadiense de la zona francófona de Quebec; Johnston también es canadiense pero proviene del área de Columbia Británica. Bombito tiene padres congoleños; el padre de Cornelius es de Barbados pero su madre es inglesa; Davies nació en un campo de refugiados en Ghana en una familia liberiana que había huido de la guerra civil; Osorio tiene una familia colombiana; Eustachio tiene ciudadanía portuguesa por origen familiar. No sé de dónde viene Laryea, recopilé mi información con una simple consulta en un buscador, pero el color de su piel dice sin lugar a duda que su origen no es norteamericano; David tiene padres haitianos. Tampoco sé qué origen tiene Shaffelburg, no he encontrado nada en la web, pero en su caso el apellido parece indicar un origen alemán. Por último, Cyle Larin, que resulta ser el mejor goleador de la selección canadiense. Para él tampoco la web proporciona información para una investigación rápida, pero en su caso es el color de su piel lo que nos dice que su código genético proviene de lugares alejados del frío canadiense.
En resumen: ¿qué selecciones son las selecciones nacionales hoy? Deberíamos preguntarnos en qué se han convertido en una época definida por la globalización, fenómeno del que no tomamos conciencia plena y coherente. ¿Son tal vez el signo de lo que un conocido antropólogo italiano, Francesco Remotti, llama “obsesión por la identidad” (2010)? Él mismo nos explica cómo la sociedad humana es una red relacional que se divide en grupos de “nosotros” dominados por la búsqueda de intereses particulares. Yo añadiría que la modalidad que caracteriza la relación entre “nosotros” tiende a ser conflictiva, si la historia nos enseña algo. Desde esta perspectiva entendemos el significado que caracteriza la investigación de Remotti que conduce a la pregunta de si las identidades (colectivas) son realmente necesarias o si son más bien un presagio de problemas y hostilidades que empobrecen las relaciones humanas e impiden el desarrollo de proyectos comunitarios.
Por tanto, si cuando decimos “nacional”, como suele ocurrir, nos referimos a un adjetivo que implica “identidad”, tal vez deberíamos considerar la tesis de Remotti según la cual “la identidad es una palabra envenenada”. Vale la pena especificar que el término aquí y en el análisis del autor mencionado se basa en su dimensión colectiva y deja de lado la individual donde, en cambio, mantiene un valor positivo fundamental para el bienestar personal y colectivo.
Cuando escuchamos a los aficionados gritar “ganamos” ¿qué entendemos? El mundo está lleno de miles de millones de personas que se han imaginado parte de un “nosotros” al que no pertenecen. A ganar el partido en realidad fueron once jugadores que en la mayoría de los casos no forman parte del “nosotros” al que se refieren los aficionados y al que nos referimos cuando hablamos de la nación como sinónimo de identidad profunda y compartida. No desde un punto de vista sustancial, dado que formalmente deben serlo para formar parte de una selección nacional. Pero como decíamos: ¿es suficiente una ciudadanía para convertir a un no europeo en europeo? Agamben (Medios sin fin, 2001) observa que el Estado-nación transforma el acto de nacer en un lugar (un acontecimiento completamente aleatorio) en el fundamento de su soberanía. Significa que la participación de la selección nacional de fútbol (o de cualquier otro deporte) en un campeonato internacional tiene el valor de una reafirmación de su soberanía y, agrego, de la legitimidad de la separación del Otro, del distanciamiento del Otro, sea quien sea.
Por supuesto, los hijos de tercera generación y mayores quizás puedan presumir de un buen grado de integración cultural debido a que nacieron y se criaron en el país donde emigraron sus antepasados, pero cualquiera que tenga un poco de familiaridad con comunidades con raíces en lugares distintos a su lugar de residencia sabe que el territorio de origen familiar marca profundamente la identidad de las personas. Y esto significa que, una vez apagados los focos del campeonato, todas las sociedades vuelven a expresar conflictos internos no resueltos que se originan precisamente en la diversidad de orígenes nacionales de sus ciudadanos. Entendemos por qué Bauman definió la identidad nacional como “una mezcla de problemas” como una “convención socialmente necesaria” (Identidad, 2010). Las selecciones nacionales de fútbol son “necesarias” para reafirmar las divisiones que generan los problemas que en vano intentamos solucionar. En resumen – pero no creo que nadie se sorprenda – el fútbol es un circo de poder que recuerda las reflexiones de Baudrillard cuando escribe que hoy el poder mundial se afirma mediante “la influencia de la simulación, una simulación operativa de todos los valores, de todos culturas” (Por que todo no ha desaparecido aùn? 2009) y que en sí mismo no es más que una parodia de valores. Basta observar el comportamiento, la reacción y escuchar el lenguaje de los aficionados durante un partido internacional para comprender que no existen valores verdaderamente compartidos.
Concluyo con una propuesta: hacer algo concreto para superar las barreras y los horrores que los nacionalismos llevan en su ADN, hoy que en mi opinión ya no hay razón ni necesidad de perpetuar esta forma ideológica de pensar la identidad colectiva, podríamos abolir los campeonatos con selecciones nacionales y centrarnos en las competiciones de clubes. Cuando veo a los hinchas de Milán o Inter, Boca o River, Manchester o Liverpool, Bayern o Borussia gritando alocadamente por la victoria de su equipo favorito, veo la imagen de la época que realmente vivimos, esa en la que nos abrazamos unos a otros sin dar ninguna importancia a la diversidad del otro. Exultar con tus ídolos sabiendo que uno es del mismo país que tú pero los demás vienen de todas partes del mundo, este ya es el futuro mejor del que siempre hablamos pero que nunca tenemos el coraje y la coherencia para construir y afirmar.