Il tempo che stiamo vivendo, viene definito da tutti come un tempo “sospeso”. Questa sensazione generale, quasi unanimemente condivisa, pone delle domande, su cosa significhi “sospeso” e, appesa alla precedente, per quanto tempo durerà questo tempo. Il nostro “essere”, cioè, vive una diversa dimensione temporale, una dimensione nella quale il tempo non è più solo una coordinata spaziale, correlata con la dimensione fisica dello spazio, ma diviene dimensione ontologica in cui ciascuno esplora uno spazio dimenticato o che ci si è abituati a ritenere residuale: la nostra interiorità.
Attenzione, non intendo dire che stiamo scoprendo il mondo interiore, siamo anche troppo bombardati da sollecitazioni che pescano nella interiorità per perseguire fini ed interessi che sfruttano la nostra interiorità per incanalare le nostre esistenze su binari predefiniti, utili ad altri che restano dietro le quinte. Dico però che questo tempo sospeso della quarantena ci sta obbligando a percorrere “sentieri interrotti” nel bosco della nostra vita interiore.
I pochi fortunati che hanno avuto modo di studiare un po’ di filosofia avranno già sentito risuonare gli echi del pensiero di Heidegger. Il suo pensiero ha lasciato una influenza che ancora perdura e che la complessità della contemporaneità sembra addirittura rinvigorire. Secondo lui veniamo al mondo per vivere il nostro progetto. La domanda che lui ci aiuta a farci è se il nostro essere veramente noi, se cioè l’ “io” di ciascuno di noi corrisponde ad un progetto autentico e sincero o non sia piuttosto il risultato scomposto ma preordinato di tante influenze esterne: delle strategie di marketing che sono ormai linguaggio comune delle aree del commercio, della pubblicità, della politica e persino del sindacalismo nella sua ultima e incoerente forma. Heidegger, insomma, ci ha spinto a distinguere tra un “io” di superficie che tuttavia noi riteniamo profondamente vero ed un “io” profondo che solo discende da una autentica conoscenza di quel mondo interiore dove ha base la nostra identità, dove risiedono le scelte fondamentali che ci definiscono come individualità uniche e irripetibili. Troppo evidente, infatti, che gli “io” influenzati da quanto sopra ricordato, si assomigliano tutti. Basterebbe guardare ai “modelli” antropologici che rappresentano i casi di successo dell’epoca moderna. I personaggi della televisione si assomigliano tutti, complice il ricorso ad una chirurgia estetica che applica le stesse “forme” al viso e al corpo di tutte, per esempio, le show girls, le presentatrici e persino una parte delle giornaliste. Ma non si creda si tratti di un fenomeno di genere. Anche i giornalisti televisivi, cioè quelli conosciuti dal grande pubblico, si assomigliano tutti, vanno per modelli di successo. Una analisi prossemica mostrerebbe con facilità, attraverso il rilevamento del linguaggio gestuale, della postura e del modo di rivolgersi agli interlocutori, che esiste una intera categoria di giornalisti che replica il modello “Santoro” per auto-mimesi, cercando cioè di sfruttare il successo del modello di riferimento.
Quando Heidegger si chiede, dunque, cosa definisca ciò che chiama l’ “esserci” (Dasein), egli spiega che si riferisce ad un concetto di “autenticità” che ha a che fare con la condizione tipicamente umana: la mortalità. L’idea della morte, dal cui timore o spavento deriva un senso di angoscia esistenziale e che ha un ruolo importante nella invenzione (uso il termine secondo l’etimo latino dell’invenire) delle religioni, pone un dubbio o, meglio, ci pone davanti ad una scelta a campo logico, delle due l’una: o la si ignora (fingendo che non ci riguardi fino a quando non si approssima la fine) o la si assume.
Normalmente crediamo che a definirci siano tutte le cose che facciamo nella nostra vita quotidiana. Il nostro lavoro, il nostro ruolo in società, le nostre relazioni, le cose che abbiamo, i nostri averi, la nostra casa, quella in città e quella al mare, quella popolare, quella abusiva, quella occupata, i nostri viaggi durante le ferie, i nostri successi e anche i nostri fallimenti. In realtà, tutte queste cose non sono la nostra essenza, ma semplici possibilità, alcune concretizzate come le si voleva, altre come si è potuto, altre ancora che non sono diventate affatto concrete, rimaste a livello di desideri, intenzioni, rivendicazioni che pure, anche se ad un altro livello, formano un addentellato delle precedenti. Se tutte queste “cose” le riteniamo aspetti del nostro “io” è perché veniamo da secoli di storia del pensiero che ha oggettivizzato l’essere come qualcosa che è nel mondo al pari di altri oggetti come la natura, con la sola differenza che l’essere umano è dotato di facoltà cognitiva per cui vede e comprende gli altri oggetti (sebbene pensando proprio alla relazione tra Uomo e Ambiente il dubbio che sappia “vedere e comprendere” si fa davvero grande). Tutto sommato, fino ad Heidegger non siamo andati molto più in là dell’idea che Parmenide espresse nel VI secolo a. C. quando disse che l’essere è e non può non essere; e che il non essere non è, ed è necessario che non sia. Certo si è passati da una visione immobile dell’essere ad una compatibile col divenire storico, ma sostanzialmente senza compromettere l’impostazione presocratica che si è strutturata col passaggio da Platone e Aristotele per giungere fino ad Hegel che ha abbattuto limiti importanti (l’essere come limite del pensiero) ma sempre con il primato della Ragione. La fiducia nella stabilità delle categorie e dei giudizi che oggettivizzano la mente umana con Heidegger invece scompare, sollecitata da un senso storicista che nel progetto umano non può vedere modalità uniformi date per sempre, la mente umana è anch’essa partecipe della mobilità che caratterizza il nostro essere progetto. Sostanzialmente, in Heidegger c’è una diretta anticipazione di quella teoria della complessità che ritiene un limite il riduzionismo scientifico (così le filosofie come quella kantiana) che scompongono in parti per conoscere il tutto. Per Heidegger l’uomo è un intero che ha sempre qualcosa in più o in meno della somma delle sue parti, che rappresenta la sua unicità, che definisce il suo Dasein, il suo progetto vitale.
Il salto che Heidegger ci ha fatto fare è quello di cui prendiamo incoscientemente coscienza in questi giorni di tempo sospeso. Tutti noi abbiamo dovuto fare i conti con la sottrazione di un orizzonte vitale fatto di progetti a breve scadenza, come l’abitudine di recarsi in palestra o incontrare gli amici per l’aperitivo; di media scadenza come l’avere programmato un viaggio in estate; o, infine, di lunga scadenza come potrebbe essere aver fissato la data di matrimonio fra due anni, o rinviato l’acquisto di casa ai prossimi cinque anni programmando dei risparmi preliminari. Ciò che abbiamo dovuto improvvisamente eliminare dalla nostra vita produce conseguenze diverse. Ciò che era a breve scadenza ci ha infastidito, ciò che sembra sfuggire a medio termine ci dà paura, unitamente alla speranza che tutto questo passi in fretta, perché ci spaventa non poter recuperare quei progetti specifici come una vacanza programmata. Ciò che si trova a lunga scadenza, invece, ci dà ansia, un’ansia che parla di un futuro di cui non si conoscono i contorni, i vincoli, le condizioni. Qui non è più la festa di matrimonio il problema, se si farà o meno – sarebbe solo un’altra paura e chi la vive in questi termini effettivamente ha solo una paura in più – ma il futuro e la domanda interiore è: cosa ne sarà di noi. È stato proprio Heidegger a distinguere tra paura ed ansia a seconda che sia riferita a qualcosa di circoscritto e noto oppure legata ad un ignoto che non ci dà strumenti di difesa. Contro la paura esistono la fuga e la difesa, contro l’ansia non abbiamo null’altro che la meditazione se non si vuole fare ricorso agli psico-farmaci.
Come di fronte alla morte, anche in questa esperienza di quarantena, con i suoi echi di morte giornalmente diffusi dai quotidiani e dalle televisioni, viviamo quel tempo sospeso che è tipico della morte. La morte ci sottrae a tutto, senza preavviso, non ci lascia il tempo di salutare chi vorremmo, di chiedere perdono, di sistemare le nostre cose, di pronunziare le ultime parole. Si muore senza il conforto di un sistema. Mentre ci siamo abituati a vivere con e dentro un sistema. Siamo divenuti – Heidegger ci metteva in guardia – pezzi o ingranaggi (a seconda del livello di coinvolgimento) di un mega organismo, iper-strutturato, che è la società capitalista di produzione; chi non è coinvolto è perché alla stessa stregua è parte di altri organismi super-strutturati come organi centralisti votati al controllo delle comunità di cittadini. In questo senso le sensazioni che oggi proviamo, di fronte a ciò che abbiamo perduto, temporaneamente o chissà, sono richiami del nostro mondo interiore che ci spinge a farci le domande più profonde ed intime: chi siamo veramente e cosa veramente vogliamo essere, cosa desideriamo per il futuro nostro e degli altri? Vogliamo davvero tornare a un mondo in cui iniquità e disuguaglianza corroborano un sistema che offre dignità solo verbale e formale ai cittadini, ma non reali forme di democrazia? Come davanti alla morte ci corre rapidamente davanti agli occhi tutta la nostra esistenza (almeno, così ce lo raccontiamo) ma solo coi fotogrammi delle cose importanti, anche questo tempo sospeso ci sta facendo riscoprire la giusta gerarchia delle cose veramente importanti. Abbiamo vissuto per lungo tempo convinti che nulla potesse impensierirci e probabilmente questa pandemia è solo uno degli eventi che il futuro ci farà conoscere.
Oggi osserviamo con più orrore l’arrossamento della pelle delle infermiere che per dodici ore hanno assistito i malati in rianimazione, che le immagini della gente che muore nei teatri di guerra sparsi per il mondo, magari dopo anni di indifferenza e privazioni, magari dopo torture fisiche inaudite. Ma l’esposizione mediatica ci ha abituati alla morte degli altri (ancora un concetto heideggeriano), senza prepararci all’ansia di questo scenario che ci sottrae allo stordimento quotidiano della società dei consumi, quella che ha tagliato i fondi a sanità e istruzione per perseguire la chimera del profitto. Che non c’è stato. Mentre tutti siamo stati trasformati prima da persone a cittadini, poi da cittadini a consumatori e infine da consumatori a clienti, ognuno con la sua fidelity card che fa capo ad una multinazionale francese o tedesca o americana o araba o cinese. Siamo ancora nel mondo della opposizione tra una classe egemone (oligarchica) e tante classi subalterne, ognuna delle quali manipolata da una multinazionale. Siamo prodotti in serie, che di tanto in tanto si risvegliano per un evento fortuito ed hanno l’occasione di tornare a cambiare il mondo, perché ogni crisi è tale da un solo lato della moneta. Dall’altro lato, infatti, c’è sempre una opportunità che bisogna saper cogliere. Occorre, come suggeriva Heidegger, assumersi la responsabilità del vivere, assumendo la morte come orizzonte non buio, misterioso e pauroso, ma come limite storico del nostro essere nel mondo. Ognuno di noi è manifestazione dell’essere, ognuno con una forma diversa ed unica. Non occorre mettersi d’accordo su una meta comune, se davvero assumessimo la prospettiva heideggeriana, se facessimo tesoro dell’apprendimento forzato di questo tempo sospeso, torneremmo a curare e proteggere quel dialogo umano che è la base di ogni democrazia e che nasce naturalmente quando le persone vivono il loro progetto come esperienza individuale di un essere comune. Passeremmo dal disorientamento descritto dalla società liquida teorizzata da Zygmunt Bauman alla coscienza della Terra-Patria di cui parla, inascoltato, Edgar Morin. E finalmente sarebbe il mondo migliore che sempre risorge dopo una grande crisi.
Condivido….stessa riflessione che faccio sollecitata da altre riflessioni simili..e correggo non é un tempo sospeso ,é un altro tempo,un tempo diverso che ci strappa dall’esteriore e ci scaraventa nelll’interiore inprovvisamente e brutalmente..che ci fa fare i conti con noi stessi chiusi faccia a faccia con noi..chi sono io ,cosa ho fatto fino ad ora,cosa volevo essere e cosa sono oggi..come qualcuno mi fa notare orari,giorni del calendario,rituali quotidiani che significato possono mai avere adesso? Il tempo viene scandito dall’io ,ora e qui e forse da un pensiero a domani ,al futuro,un futuro incerto ma sicuramente diverso a cui ,non so gli altri ,ma io non mi sento pronta…sono molto.profonde le tue riflessioni ,grazie¡
Interessante lavoro: l’ho letto tutto. Mi fa pensare . Ma intanto la vita scorre nell’ambiente in cui ci si trova. E i problemi esistenziali sono i medesimi del passato: forse e’ una legge insita nella natura umana per saecula saeculorum. Credo che soltanto l’allargamento dell’istruzione a tutti gli individui potra’ equilibrare la bilancia uomo/ ambiente.
In fine desidero esprimere i miei complimenti al Prof. Finocchiaro, che mi ha permesso conoscere , con questo elaborato, altre idee filosofiche che io ignoravo totalmente.
Sono io che faccio a te i complimenti e ti ringrazio per avermi fatto comprendere il senso profondo della hermandad italo-argentina. Grazie “zio”