La più insistente forma di globalizzazione è la superficialità (che spesso si traduce in pura imbecillità). La seconda, la corruzione. A causa di questi due autentici virus, culturale il primo e sociale il secondo, il mondo ha preso una deriva che sfugge a quanti un giorno si risveglieranno vittime o succubi.
Il mondo che è stato a guida occidentale e prima specificamente europea, oggi avanza senza una guida riconosciuta. La forma è però quella della guida sotterranea, o dietro le quinte. E quello che accade lì dove possono vedere solo pochi eletti e protetti, determina il volto del mondo di oggi e di domani. La voglia di guardare al di là del consentito è poca, confusa, disorganizzata e ben tenuta a bada. Il problema è nella natura essenzialmente economica della visione del mondo, delle relazioni fra Stati e persino, come dimostra l’inedito caso del Corona Virus, dell’ordine delle priorità tra vita ed economia.
Intorno a me, vedo solo ciechi. Un mondo economico che ha forgiato l’Homo economicus, è un “mondo” finché tiene le sue regole. Quando ammette un principio di caos, già non è più un mondo, ma uno stato precario che prelude a un cambio rivoluzionario. Il principio di caos, a mio modo di vedere, è la Cina. Il solo paese che mantiene in vita le ideologie nella post modernità che secondo Lyotard si caratterizza per la fine delle “grandi narrazioni”. Questo storico Impero sta attuando una forma di comunismo che si è consociato col capitalismo che avrebbe dovuto combattere. Non ha adottato il liberalismo eppure si muove nel mondo del capitalismo liberale con le stesse prerogative degli altri. Come ammettere al tavolo da poker un baro. Chi lo farebbe? Eppure è quel che si fa. E lo scopo, a mio modo di vedere, è battere il capitalismo, che si basa sulla forza del denaro, comprando tutto il Capitalismo stesso. Credo che sia questo il piano cinese di lunghissimo raggio.
Alla crescita della Cina, d’altronde, abbiamo contribuito tutti. Con quelle forme di globalizzazione che ho definito insistenti. In Italia, per esempio, c’è stata tutta una lunga stagione colpevole che ha trasferito alla Cina, gratuitamente, il secolare know how italiano. Quello che ci ha reso famosi e irrinunciabili. Fino ad allora, i cinesi erano noti per l’attività di “copiare di contrabbando”. Le grandi ditte, grazie ad uno slogan rappresentativo dei due difetti della globalizzazione, la superficialità e la corruzione, hanno “delocalizzato” le loro attività, attirati dall’avidità dei guadagni. Con delocalizzazione, in realtà, si è inteso il dono a costo zero del nostro italian style, che a immaginarlo già solo come prodotto commerciale nella veste di “formazione professionale”, avrebbe regalato al nostro Paese un grande benessere. Invece lo abbiamo regalato consentendo a chi stava fuori dalla legalità (copiare per contrabbandare) di rientrare con nuova veste nel mondo dell’economia globale (produrre per conto terzi). Noi abbiamo dato impulso allo sviluppo economico della Cina e fornito vento alle vele della loro espansione mondiale.
Quello che va compreso, è l’ambito di profonde e significative differenze che consentono alla Cina di essere da molti anni il solo Paese il cui tasso di crescita si avvicina alle due cifre. A differenza degli altri Stati, infatti, la Cina programma con un raggio di azione pluridecennale. Il Governo – che nel loro contesto rappresenta l’onnipotenza della divinità – produce iniziative a corto, medio, lungo e lunghissimo raggio. Ne è un esempio facile facile l’ambizioso ma concreto progetto della nuova Via della Seta. Ma lo è anche l’investimento enorme in tecnologia, il G5, il nuovo aeroporto stellare di Pechino (segno concreto di tecnologia applicata al controllo totale e allo sviluppo programmato), etc. Il resto dei Paesi, normalmente è afflitto dalle misere dinamiche politiche basate su interessi individuali e di gruppo, sempre in tensione precaria tra il potere di una casta e la debolezza di una categoria. I piani di sviluppo in Italia sono annuali, in alcuni paesi triennali o al più, in quelli con una tradizione riformista che ha costruito un’etica del lavoro molto diversa da quella nostra, quinquennali.
Non vedo chi progetti cambiamenti a lungo raggio. Fanno eccezione le aspettative del Consiglio europeo di Primavera. Ma che ne è stato della strategia di Lisbona, ipotizzata nel 2000, per la crescita e l’occupazione attesa per il 2010? I dati occupazionali ci dicono cosa è successo: un naufragio. Da quel fallimento cosa ne è nato? Una nuova ipotesi che prevedeva, per il 2020, le seguenti cose:
• il 75% delle persone di età compresa tra 20 e 64 anni deve avere un lavoro;
• innalzare al 3% del Pil i livelli d’investimento pubblico e privato nella ricerca e lo sviluppo;
• ridurre le emissioni di gas a effetto serra del 20% rispetto ai livelli del 1990 e portare al 20% la quota delle fonti di energia rinnovabili nel consumo finale di energia;
• il tasso di abbandono scolastico deve essere inferiore al 10% e almeno il 40% dei giovani deve avere una laurea o un diploma;
• 20 milioni di persone in meno devono essere a rischio povertà.
A prescindere dalla pandemia che non era prevedibile, ma che è avvenuta soltanto nel 2020, vi pare che quest’anno corrente abbia raggiunto gli ennesimi obiettivi di lunga scadenza? O non conferma il fatto che la massima capacità previsionale si attesti a 10 anni perché nessuno è in grado o ha in animo di spendersi per un vero futuro? un futuro che non debba egoisticamente godere in prima persona ma rappresenti piuttosto una eredità “sana” per chi verrà dopo di noi? Non era questa, in fondo, la missione centrale di ogni mandato politico in democrazia? Assumere l’onere di guidare il Paese per lasciarlo meglio di come lo si è ricevuto? Non è forse per caso, allora, che il refrain secondo cui “i giovani cambieranno il mondo” abbia trovato tanta eco. In fondo è un modo politically correct per scaricare sugli “altri” il proprio dovere e compito, un modo illusorio non confermato dalla storia, dato che ogni generazione assume temporaneamente il compito di rappresentare la gioventù e quindi la possibilità del cambiamento.
In realtà il cambiamento non ricade casualmente sulle spalle degli ignari, siano scelti per l’età o qualunque altro criterio. Il cambiamento si persegue con l’azione di leader capaci di interpretare il bene comune e abili a individuare la rotta da seguire. Grazie alla loro azione si formano altri leader e tutta la popolazione ne riceve impulso alla crescita, ciascuno secondo i propri strumenti, mezzi e capacità. La storia contemporanea ci mostra che questo funziona, purtroppo solo in paesi non liberali, dove non vigono i diritti umani essenziali, come in Cina. Abbiamo costruito un mondo dove leader significa “colui che comanda” oppure diventa un travestimento per chi comanda. Come in Cina, dove ogni apparizione del sommo capo del partito e della nazione viene omaggiato di sorrisi e giubili di entusiasmo, a prescindere dalla mancanza di libertà. Mentre in Occidente i leader che si propongono come tali sono soltanto anelli di catene di comando la cui parte più importante resta nascosta, agisce nell’ombra e al massimo si muove in acque opache dove le responsabilità non sono mai chiare. E tutto questo preoccupante orizzonte, sfugge per incapacità, per viltà, per indolenza, per interesse.
Intorno a me, vedo soltanto ciechi…
Grande Giampiero concordo su tutto. È uno scontro tra il male rappresentato da questo falso umanesimo senza valori, egregiamente espresso, ed il Bene. Nel commento sul giornale La Verità del 4 maggio, sul commento sulla teologia di Papa emerito Benedetto XVI, che ha individuato tutti gli aspetti della post.modernita’.
Condivido,anche chi vede solo ciechi intorno puo’ essere cieco a quello che ha davanti a se’……
I – La Cina “proletaria” invece di combattere l’occidente capitalista ne diventa alleata e l’occidente capitalista invece di combattere l’ormai super potenza cinese ne chiede l’aiuto per mantenere alti gli utili dell’enorme produzione industriale. Il risultato di quest’abbraccio eurasiatico non credo sia facile sapere quale sarà.
II – Disgressione non tanto impertinente: un noto giornalista (A. Padellaro), attualmente in ardita attività citava in un articolo scritto dopo uno dei più gravi delitti subiti dalla Sicilia e dall’Italia unita,
una frase detta da una emerita personalità dell’isola, una di quelle per intenderci che il titolare del blog definisce direi “manovratori senza titolarità”. Disse quest’uomo influente che “i siciliani sono più furbi che intelligenti”. Tornando al tema e partendo dall’oggettivo stato multiculturale dell’isola posta al centro del mare tra le terre, si può ragionevolmente dedurre che tutta l’umanità abitante il terrestre pianeta ad oggi si dimostra più furba che intelligente.
Questo detto non per dire che i siciliani sono i più furbi e i meno intelligenti: la furbizia e il “tarlo” che inorgoglisce chi pensa di esserlo e se ne vanta, purtroppo sono un virus e una tara autoctoni di tanti luoghi.