Dentro la scuola italiana: le sue ombre svelate da un preside coraggioso

intervista di Fabio Macaluso sul blog “Impronte digitali”, L’ESPRESSO del 5 ottobre 2018 http://improntedigitali.blogautore.espresso.repubblica.it/2018/10/05/dentro-la-scuola-italiana-le-sue-ombre-svelate-da-un-preside-coraggioso/

Giampiero Finocchiaro è un protagonista della scuola italiana che si inserisce a pieno titolo nel solco degli educatori che aprono nuove strade.

Filosofo e antropologo, è stato docente e dirigente scolastico. Per scelta ha diretto per un periodo durato più di un decennio una scuola di frontiera nella disagiata periferia ovest di Palermo, realizzandovi, aderendo a una realtà difficile, un progetto educativo innovativo.

Oggi dirige l’Ufficio scolastico del Consolato generale d’Italia di Buenos Aires.

Finocchiaro ha pubblicato diversi volumi di narrativa e teatro e un insieme di saggi dedicati al mondo scolastico.

In coincidenza con l’apertura dell’anno scolastico e in seguito alla lettura del suo ultimo testo “La scuola di chi” è nata questa conversazione, che ha natura disvelatrice su una delle realtà più complesse e “fatiscenti” del nostro sistema politico e sociale.

Professor Finocchiaro si parla tantissimo di scuola, ma sfugge esattamente cosa facciano e in quale quadro operino gli operatori dell’istruzione e come vengano “serviti” gli alunni. Può brevemente descrivere un ambiente scolastico ordinario?

Le scuole sono ambienti di lavoro paradossali. Vi vige una rigorosa procedura di programmazione eppure si vive sempre in emergenza. Il male assoluto è la falsa autonomia che non fornisce gli strumenti necessari. In termini generali, le strutture edilizie patiscono i conflitti gestionali tra Comuni e Presidi, le strumentazioni soffrono l’impossibilità di provvedere alla manutenzione, la vita scolastica patisce lo scarso valore sociale della figura docente e l’aggressività genitoriale, il progetto formativo riflette l’incompatibilità con la vecchia struttura del percorso in tre gradi e, alla tirata dei conti, gli alunni subiscono la scuola tout court. In questo quadro generale e disarmante, chissà per quale miracolo, esistono realtà stupefacenti, ma sempre frutto di dedizione e sacrificio il cui merito è di singole eroiche persone.

L’Espresso ha svelato in un recente dossier che dal 1995 a oggi hanno abbandonato la scuola 3milioni e mezzo di studenti. Dice il nostro giornale: «Il deserto avanza. E il sistema che dovrebbe dare futuro alle nuove piante ne lascia invece seccare una su quattro».

Lo so e non mi stupisce, io stesso se rinascessi oggi non andrei a scuola nemmeno come alunno. Ogni sana energia che vi circola è destinata alla frustrazione professionale, come dimostrano le statistiche sullo stress da lavoro correlato. La pubblica amministrazione è ricca di doti che non sa premiare ed è al contempo zeppa di inutile o dannosa zavorra che non sa eliminare. Gli alunni di ogni età pagano il dazio a una idea di scuola che è serva dei bisogni degli adulti: dai genitori che devono poter lasciare i figli da qualche parte ai docenti che esigono e ottengono di avere lo stesso lavoro anche quando, col loro profilo, non servirebbero più in un quadro di svecchiamento complessivo. Quando nella mia scuola ho avuto bisogno di dare più spazio all’insegnamento dello spagnolo, ho dovuto mantenere una cattedra intera di francese perché la titolare, in part time al 50%, aveva un diritto prioritario a riavere la sede di titolarità alle medesime condizioni in cui l’aveva lasciata. Questo e tanti altri meccanismi dimostrano che la centralità degli alunni è solo un auspicio.

Cesare Moreno, tra i fondatori del progetto “Chance” a Napoli, ritiene che nel nostro sistema continua a mancare un pezzo fondamentale: «abbiamo una scuola parolaia, ancorata alla cattedra, mentre servono più pratiche, meno prediche».

Conosco quel progetto che è frutto di una équipe di cui fa parte anche l’ex Sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi Doria che ha anche scritto l’Introduzione del primo di tre libri in cui ho spiegato il mio progetto formativo: “Autonomia e Innovazione” del 2009. Lui stesso, da Sottosegretario, è voluto venire, seppure in visita privata, nella mia scuola (la “Laura Lanza” di Carini) per comprendere il funzionamento del progetto centrato sul Senso del Bello e l’Innovazione che abbiamo chiamato Metodo EDUCANDOIT. La loro iniziativa riguarda l’area partenopea, la mia quella panormita. Sono analoghe per impianto teorico, assetto metodologico, contesto socio-culturale e target group. In entrambi i casi si è dato spazio a una didattica laboratoriale, informale, circolare che ha messo al centro le individualità degli alunni e fatto del ruolo docente uno strumento facilitatore. Appunto, meno prediche e più pratiche, quindi meno individualità e più comunità.

Il sottotitolo del suo ultimo saggio recita «come realizzare la centralità degli alunni». Nella sua esperienza, lei ci è riuscito?

Nella mia scuola abbiamo lavorato per rendere gli alunni protagonisti reali. Gli allievi volevano la settimana corta, le docenti no, sebbene litigassero per il sabato libero. Abbiamo chiuso il sabato. Le docenti non volevano la responsabilità strumenti tecnologici da usare in classe e li abbiamo affidate agli studenti. Alla scuola media abbiamo diviso le cattedre di lettere e quelle di matematica, creando consigli di classe più numerosi che hanno permesso rapporti più equilibrati in fase di valutazione degli studenti e valorizzato la professionalità delle docenti. Abbiamo affidato le procedure per la sicurezza agli alunni, dalla prima elementare in poi, perché in ogni classe ci saranno sempre alunni presenti mentre la presenza delle docenti è aleatoria e le supplenti di breve permanenza non fanno in tempo ad addestrarsi. Ogni aspetto della vita scolastica è stato centrato sulla comunità giovanile che ha imparato ad amare la scuola come luogo di incontro. Già nel primo anno abbiamo azzerato il vandalismo che aveva reso la scuola un luogo sporco e triste.

Il suo lavoro afferma che la scuola italiana è vecchia perché «è centrata, organizzata sui bisogni degli adulti che ci lavorano». Aggiungerei che il dibattito sulla scuola non viene seguito proprio dai più giovani e che nella stanza dei bottoni vi sono i burocrati ministeriali condizionati dalle forze di governo, qualsiasi colore abbiano.

Il caso della docente di francese è solo uno dei tanti meccanismi di cui parlo nel mio saggio e che dimostrano questa tesi. I giovani “sopportano” la scuola come un rito di passaggio. Viviamo in una società ricca di occasioni “altre” di apprendimento che dovrebbero essere la prima forma di individualizzazione degli apprendimenti. L’attuale sistema di riconoscimento dei crediti per attività extra, non è sufficiente, è solo una rete istituzionale di percorsi rigidi che l’alunno ha facoltà di seguire. In sostanza l’alunno compone un puzzle con i pezzi predisposti dallo Stato. Centralità dell’alunno è l’opposto, è lo Stato che mette insieme i pezzi dell’alunno e ne stila una forma certificata perché divenga spendibile nel successivo percorso di studi o lavoro. Sarebbe il senso più proprio dell’ē- dūcĕre latino. Il sintomo più evidente è l’incidenza di quei casi di alunni che vivono stentatamente la scuola mentre brillano all’università, una volta focalizzata la loro attenzione in un ambito più congeniale. Urge una riforma dei cicli scolastici, la scuola media non serve più e non a caso, tra i pessimi risultati internazionali della nostra scuola, è il segmento peggiore in assoluto.

Andiamo a un tema che ritorna spesso nell’analisi del sistema scuola: la frattura tra generazioni. Come nota lei, non vi è conflitto perché vi è una colpa «di quel gregge opaco che si rifugia in una contestazione mistificatrice per pascolare in situazioni di comodo acquisite». Può chiarire un giudizio così duro?

Guardi, la frattura fra generazioni è un fenomeno sociale ampio e datato. Il tema è che gli adulti pensano sempre, in modo auto referenziale, che i giovani siano “meno” di come erano loro alla stessa età. E quando invece sono preoccupati per i nuovi mali del mondo, gli adulti si lasciano sfuggire una legge dell’evoluzione umana: ogni nuova generazione ha anticorpi con cui contrastare ciò che alle vecchie generazioni appare insormontabile. Di questa fiducia non c’è testimonianza diretta nel sistema scolastico, che è invece basato su un’idea troppo assistenzialista e anti pedagogica. Ci sforziamo di togliere agli alunni ogni pericolo e rischio, ma senza rischio non c’è scelta, non c’è identità e non c’è modo di capire la differenza tra causa ed effetto. Questo impedisce ai giovani di diventare adulti responsabili e costruirsi una identità reale. Il presupposto per un dialogo generazionale è appunto la conquista di una identità collettiva che oggi, nella società di massa, è impedita.

D’altro canto, secondo lei, «il vulnus di ogni riforma sta nella difficoltà di ripensare alla base il ruolo e la figura del docente di scuola».

Chi si recasse in una scuola, anche avesse 500 anni, capirebbe che è una scuola. Tutto il resto del volto sociale è profondamente cambiato. Però se si entra nelle classi si comprende la differenza tra una docente conferenziera che starà in cattedra e rimprovererà ogni distrazione degli alunni, e un docente facilitatore che avrà messo la cattedra in un angolo per muoversi liberamente e stare insieme agli alunni durante un lavoro laboratoriale. Vi sono larghe sacche di resistenza in una categoria formata da filosofi e avvocati, fisici e musicisti, ingegneri e poeti, architetti e atleti, tutte persone con profili diversi e idee diverse sul proprio ruolo a scuola. E non si dimentichi che per decenni abbiamo affidato la cosa per noi più preziosa, i figli, a semplici laureati che non avevano mai studiato pedagogia o psicologia, che non avevano gli strumenti minimi per muoversi in un ambiente con minori. Nessuno, in caso di grave malattia, affiderebbe la propria salute a un neo laureato in medicina; nessuno davanti al rischio di un licenziamento si affiderebbe ad un neo laureato in legge. Eppure i nostri figli li abbiamo messi nelle mani di persone che non avevano la più pallida idea di cosa fosse l’età evolutiva, di come si valutasse, di come si costruisse un’unità didattica. C’è voluta l’ingiustamente deprecata riforma Renzi per avviare un cambiamento.

La scuola dovrebbe svolgere la propria missione di sperimentatore e organizzatore del cambiamento, quasi in senso universale.

Popper diceva che ogni essere vivente ricerca un mondo migliore. Un inguaribile ottimista. Il cambiamento è una tensione che si nutre di senso critico, attitudine umana il cui elogio funebre decretò già Adorno a metà degli anni Settanta quando intravide e intuì la deriva “affarista” che a breve avrebbe sepolto le ideologie. Ripeto che la scuola è per definizione un laboratorio dove ogni società dovrebbe immaginare e preparare il proprio futuro, senza pregiudizi e condizionamenti. Quando non lo fa o lo fa male, non è per caso. L’ignoranza diffusa, infatti, tutela il potere dai rischi del cambiamento. La nostra società è centrata su una visione economicistica. Questo significa che prevale la ricerca di stabilità, secondo l’imperativo dei mercati finanziari che del cambiamento hanno timore. La scuola, però, è motore di cambiamento, o almeno dovrebbe. In buona sintesi, vedo una ostilità non confessata nei confronti della scuola, né bastano gli auspici istituzionali dei discorsi ufficiali. Ciò che conta sono i numeri? Allora mi sembrano conferme le politiche di tutti i governi che sulla scuola hanno investito percentuali inadeguate del PIL, preferendo finanziare altri settori della vita sociale da cui però non è scaturito né cambiamento né miglioramento.

Non è difficile svolgere questo ruolo in una società liquida secondo l’insegnamento di Bauman, dove vige la cultura del disimpegno, della discontinuità e della dimenticanza?

Tutto ciò che è efficace pedagogicamente è imbrigliato, depotenziato, disinnescato da una selva di regolamenti che hanno abbassato il livello qualitativo della relazione docenti-alunni, il solo spazio relazionale ufficiale residuo dove curare le derive del disimpegno. Vi sono molte esperienze eccellenti e buone sparse nel Paese, ma non fanno sistema. Si crede ancora che una buona prassi realizzata in un singolo contesto spazio-temporale possa e debba estendersi a macchia d’olio. L’opposto di ciò che serve in una società liquida, ovvero valorizzare le differenze sparse nel Paese che con diversi strumenti e differenti metodi raggiungono risultati assimilabili in termini di successo formativo. Senza buoni esempi, senza la concretezza della coerenza agita dal mondo della scuola, le giovani generazioni sono trascinate dal mooddella superficialità che regna sovrano tra televisione e internet, ovvero nel mondo virtuale retto dalle leggi di mercato. Contro i mali di cui lei dice, la scuola dovrebbe almeno essere rifondata a partire da una revisione dei cicli che dovrebbero essere due, con il definitivo accorpamento della scuola media a un ciclo primario di sette anni. Ciò farebbe da volano per una ristrutturazione complessiva.

La scuola non deve in ogni caso, come prevede la Costituzione, favorire l’uguaglianza e il funzionamento degli ascensori sociali? Ne ha scritto Christian Raimo in un saggio chiamato “Tutti i banchi sono uguali”.

È pura teoria, dovrebbe ma non lo fa. Io ho sempre lavorato in trincee di disagio e violenza elevati. Le tesi di Raimo coincidono con quelle da me esposte nel mio libro. Questa uguaglianza resta sulla carta, non c’è strutturalmente. Un esempio: nel 2007 al mio arrivo in una scuola di trincea dove abbiamo inventato il Metodo EDUCANDOIT e avviato un percorso formativo basato su Senso del Bello e Innovazione, ho introdotto la valutazione centralizzata degli alunni. Davanti a un computer, a ogni trimestre, essi rispondevano ad alcune domande su tre discipline basilari. Si oppose un gruppo capitanato da una docente nota per non assegnare mai il 10, e sempre tirata nei voti. Nella sua classe, una terza media, vi erano: una alunna a cui dava sempre 9 ed un alunno a cui assegnava solo 4. Nella prima valutazione oggettiva (e nelle successive), senza la presenza della docente di classe, l’alunna prese 7 e l’alunno 6. Deduca lei.

Intanto, secondo uno studio recente, su 100 studenti che ottengono la licenza media, 75 arrivano al diploma e solo 18 alla laurea. Dice il rapporto, «se si trattasse di una fabbrica, sarebbe già chiusa da tempo. Un sistema formativo che fabbrica dispersione è una macchina che gira a vuoto».

In effetti, considerata come comunità lavorativa, la scuola denuncia tutta la sua inadeguatezza. Basterebbe confrontare il tasso di assenteismo della categoria lavoratori scolastici con quelle di altri ambienti pure del pubblico impiego per comprendere che è difficile “mandare avanti la baracca”. C’è un sistema di leggi elefantiaco, una produzione di nuove norme e novellamenti che rende quasi impossibile non commettere errori che danno vita a ricorsi di ogni genere che impantanano la vita scolastica. Si aggiunga la pioggia di regolamenti nuovi che vengono continuamente editati da ogni governo. Impossibile stare dietro a tutto, si procede per buon senso, buona volontà e nella speranza di non farla grossa. Cito due piccole aperture autonomistiche: la prima affidava ai presidi il compito di individuare e premiare i meritevoli, ma si è trasformata, dopo appena due anni, in un’ennesima distribuzione a pioggia; la seconda permetteva loro di assumere pochissimi docenti selezionati entro una lista predisposta dai provveditorati. Entrambe naufragate nel passaggio di Ministero dalla Giannini alla Fedeli, docente la prima, sindacalista la seconda.

Lei chiude il suo libro con una metafora interessante. Proviamo a immaginare cosa dovrebbe stare dentro la borsa di un docente.

La cosa più antica del mondo, la consapevolezza del ruolo dell’educatore: la capacità di dare l’esempio. Le basterà confrontare i dati sulla presenza dei docenti alle assemblee per le quali è previsto l’esonero dalle lezioni con quelli sulla presenza degli alunni alle assemblee che prevedono l’interruzione delle attività didattiche. Gli stessi. Si renderà conto che la scuola rischia di essere il luogo in cui si replicano quei difetti sociali che un laboratorio per il cambiamento, qual è la scuola, dovrebbe cancellare e sostituire con virtù civiche. Il Ministero ha compiuto un grande sforzo per rinnovare la strumentazione delle aule, una delle buone cose che pur esistono e si fanno. Ma ricordo anzitutto a me stesso, che pur in assenza di nuove tecnologie, dove c’è un vero “maestro” ci saranno comunque sia buona educazione sia alunni che non lo dimenticheranno mai.Condividi:

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