Corona virus, accettare la sfida

La guerra del Corona virus non è una guerra. Direi, piuttosto, una sfida. Vediamo perciò di comprendere insieme i termini di questa sfida.

Al suo insorgere, effettivamente, la dimensione “epidemica” che di volta in volta coinvolgeva singoli paesi, metteva in campo dispositivi di intervento, e dunque forme di pensiero, riflesso di modelli ancora tradizionali. In un saggio del 2010, Byung-Chul Han rifletteva sugli scenari contemporanei rilevando il generale attardamento delle società, quelle occidentali in testa, su modelli desueti. Modelli che nella sua lettura riflettevano un paradigma “immunologico” non più capace di cogliere la complessità contemporanea. Di questa, infatti, ne sottolineava la sostanziale incompatibilità col precedente modello immunologico. I modelli del passato sono quelli di un’epoca che chiama “batterica” dove è essenziale la presenza di un “altro” contro il quale opporsi. Ma l’epoca contemporanea è piuttosto un periodo “virale”, un tempo, cioè, in cui non esiste più una distinzione netta tra interno ed esterno, tra amico e nemico. Tanto la sfera biologica quanto quella sociale, in sostanza, sono state caratterizzate da dinamiche di “attacco e difesa” che hanno trovato nell’Altro, nell’Estraneo il necessario opposto. Oggi “al posto dell’alterità abbiamo invece la differenza che non provoca alcuna reazione immunitaria”[1]. Leggi tutto “Corona virus, accettare la sfida”

Il giubilo e l’innocenza

Non mi piace il calcio. Ho sempre preferito gli sport. Sono cresciuto in questa dicotomia insanabile: il football da una parte, gli sport dall’altra, tutti gli altri. Ma non come la raffinata distinzione degli inglesi tra Jam e Marmalade che pone una differenza in positivo che ci saremmo attesi dalla Sicilia, posto che Marmalade si può dire solo delle arance mentre Jam di qualsiasi confettura. Leggi tutto “Il giubilo e l’innocenza”

Il poeta muore sempre due volte

Ho recentemente seguito i lavori di un congresso a Buenos Aires. L’occasione è stata ritenuta ghiotta per invitare – senza alcuna ragione a mio avviso – la compagna degli ultimi anni di Borges, Maria Kodama, sposata pochi mesi prima di morire. Mi è già capitato altre due volte di trovarla ospite da qualche parte per ricevere premi alla memoria del marito, che però, in pratica nascono pensati per lei e a lei vengono consegnati. Mi chiedo se nella loro casa siano di più quelli ricevuti da lui o quelli accumulati da lei da quando la sorte ha deciso che il primo tornasse ad alimentare il ciclo dell’universo, mentre l’altra restava ancora quaggiù a poggiare i piedi sul pianeta azzurro. Evento del tutto casuale che però è intervenuto a decidere le sorti del futuro, per lo meno di quello immediato, di quella eredità intellettuale che George ha lasciato ad una umanità variamente popolata e che rimane vincolato alle “autorizzazioni” della moglie sopravvivente. Leggi tutto “Il poeta muore sempre due volte”

Avete visto la Rivoluzione?

Avete visto la Rivoluzione? Se n’è accorto qualcuno? Possibile che questa notizia non faccia nemmeno eco? Eppure è sotto gli occhi di tutti, anzi, dentro.

E questo spiega perché nessuno si è accorto della Rivoluzione. Pur vivendola in prima persona, in massa. Il fatto è che siamo abituati – da quanto abbiamo studiato a scuola – a vedere la Rivoluzione come un fenomeno sociale collettivo, rumoroso, sanguinario, caotico. Ma dovrebbe essere chiaro, dopo cent’anni di studi e ricerche antropologiche e sociologiche, che i fenomeni sociali sono abiti, definiti dalla cultura del tempo e del luogo. La civiltà europea ci ha abituato ad una idea di Rivoluzione definitivamente compromessa coi fuochi e gli stendardi dell’Epopea francese di fine Settecento. La sua anticipazione nel continente americano non è che bozza di uno stesso modello concettuale e strategico. Insomma, senza fuochi e fiamme, senza insurrezioni e prese della Bastiglia, senza morti e feriti, pare non ci possa essere Rivoluzione. Analizziamo.

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Immigrazione: nessuna verità

Non entro nel merito (la mia posizione è nota avendo lanciato una sottoscrizione per l’abolizione del permesso di soggiorno), ma osservo: un giudice inquisisce un ministro per snaturare una scelta chiaramente politica, certamente non una scelta delinquente. È legittimo? È democratico? Chi verifica che l’azione dei giudici sia davvero trasparente, disinteressata, apolitica?

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Lotta di genere: la sconfitta degli uomini

Non si riesce a parlarne, il tema rientra tra quelli “no politically correct”. Eppure la situazione è urgente da tempo. Sto parlando dell’eccessiva e colpevole femminilizzazione della scuola che sta producendo, da decenni, danni la cui portata si avvertirà ormai a breve, e durerà a lungo. Perché i processi culturali sono lenti come i cambiamenti che stimolano.

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La scuola degli squilibri

Dalla mia città, Palermo, giunge la notizia di un genitore che ha picchiato un docente. Fidando in una chiacchiera della figlia, senza chiedere un confronto, il cavernicolo ha aggredito ed avuto la meglio su un insegnante, colpevole di fare l’educatore. Magari tra le sue mani imbecilli e i suoi occhi primitivi, è finita una copia fotostatica di un testo di Ibn Hawqal, autore arabo del X secolo, che proprio in Sicilia compì un viaggio in occasione del quale ebbe modo di denigrare i docenti come infedeli (ah cani!), vigliacchi e pessimo esempio per le nuove generazioni in quanto proprio essi, i docenti, si mostravano riottosi al combattimento in nome dell’oppressore. Il docente ora giace ricoverato in ospedale mentre lo scimmione se ne sta a guardare la tivu a casa con in braccio la figliola a cui starà passando perle di saggezza fognaria.

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La scuola: tornare al rischio

Mi volto e guardo gli anni passati. Quando ero bambino.

  • Mamma scendo.
  • Dove vai?
  • Giù, in piazzetta, a giocare.
  • Stai attento. E non fare tardi.

E finiva qui. Era il tempo della fiducia. Che si basava sull’accettazione culturale della dimensione del rischio come prova da superare e imparare a superare. Per diventare adulti.

Provo a pensare agli anni di oggi. Quando ero genitore.

  • Mamma esco.
  • Dove vai?
  • Non lo so.
  • Aspetta che ti accompagno, prendi il cellulare e ogni tanto dammi notizie, lasciami il numero dei tuoi amici, con chi vai?
  • Poi ti giro il contatto.

E finisce qui. È il tempo della diffidenza. Che si basa sull’accettazione culturale della dimensione del calcolo come illusione di controllo su tutto. Per restare adolescenti, facili da condizionare in ragione delle esigenze del mercato.

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Per una scuola poliglotta

Ogni insegnamento linguistico, entro un percorso d’istruzione, è fondamentale perché si tratta, al contempo, di apprendere non solo contenuti ma anche un sistema di comunicazione. A scuola, dunque, la lingua, le lingue, hanno una priorità formativa rispetto agli altri insegnamenti.
Di tale priorità non vedo traccia nelle preoccupazioni di una classe dirigente che ha sfornato tante riforme sulla base di altre esigenze, che con la centralità degli alunni non hanno a che vedere. 

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