Ogni insegnamento linguistico, entro un percorso d’istruzione, è fondamentale perché si tratta, al contempo, di apprendere non solo contenuti ma anche un sistema di comunicazione. A scuola, dunque, la lingua, le lingue, hanno una priorità formativa rispetto agli altri insegnamenti.
Di tale priorità non vedo traccia nelle preoccupazioni di una classe dirigente che ha sfornato tante riforme sulla base di altre esigenze, che con la centralità degli alunni non hanno a che vedere.
A partire dagli anni Settanta si è introdotto lo studio delle “lingue straniere” nella scuola primaria seppure in forme sperimentali (faccio riferimento alla scuola primaria perché da lì è partita la diffusione dello studio L2 prima relegato, con semplici obiettivi di competenza, al secondo grado). E nel 1985, i Nuovi programmi della scuola elementare, sottolineando che si era ormai giunti ad una “epoca di intense comunicazioni”, il Governo varava il DPR 104 (poi Legge n. 148 del 5 giugno 1990) con cui veniva disposto un obbligo formativo che include l’apprendimento di “una lingua straniera” per il suo valore formativo rispetto alla finalità della “comprensione di altre culture e altri popoli”.
Da quel momento in poi non si comprende cosa sia successo. Intendo dire nella mente dei decisori politici come degli operatori scolastici. Eppure il DPR aveva assunto una prospettiva corretta e adatta ai tempi futuri. Di fatto, l’inglese è diventato l’imperativo morale della scuola italiana, con l’obbligo di studio su tutto il territorio nazionale, a tappeto, ivi compresi i corsi serali per adulti. Qualcuno sa perché? Cioè, sa spiegare per quale criterio? Lo stesso DPR 104 non mancava di osservare il “carattere veicolare della lingua inglese”, ragion per cui si doveva considerare che l’inglese offriva “occasioni più frequenti di esperienza”. Ma nessuno aveva disposto che tutti dovevamo studiarlo come fosse il nostro mantra nazionale o l’inno delle nostre aspirazioni estere. Una lingua, non è mai “senza peccato”, non è mai un corpo inerte, si porta dietro, celati, modelli culturali.
Il successivo DM del 28 giugno 1990, che disciplina l’insegnamento delle lingue straniere nella scuola elementare, dispone che nella scuola elementare “l’insegnamento della lingua straniera riguarda, di norma, le quattro lingue più diffuse: francese, inglese, spagnolo, tedesco” ma precisa che i “criteri di scelta della lingua nelle varie parti del territorio devono tener conto delle reali disponibilità di docenti”. In tal modo, un semplice principio di realtà (se non ci sono soldati non fate la guerra) e di prudenza, sposta subito l’attenzione nazionale dalla centralità degli alunni (nel cui interesse il Collegio docente dovrebbe scegliere quali lingue insegnare) alla centralità dei docenti. Aspetto divenuto subito preponderante e che ha finito col seppellire la bellezza dei principi della scuola italiana. Tanto è vero che proprio a partire da questo DM tutta la discussione istituzionale sulle lingue straniere diventa un dibattitto sulle “articolazioni interne alla funzione docente” che deve assicurare tali insegnamenti.
Alla luce di quanto appena detto, dovrebbe risultare comprensibile che la riforma Moratti estendesse a tutte le scuole l’obbligo normativo di studiare anzitutto inglese. Il Paese le si ribellò contro, ma per nascondersi la responsabilità di un processo già messo in atto da centinaia di migliaia di adulti che usavano la scuola per battaglie e rivendicazioni corporative che nulla avevano a che fare né con la centralità degli alunni né con l’ispirazione pedagogica di alcune precedenti norme scritte con inusuale attenzione. Da quel momento è stato tutto una caduta. Abbiamo condizionato subliminalmente – e colpevolmente – intere generazioni affinché pensassero che l’inglese – e tutto ciò che esso rappresenta culturalmente – fossero di “primaria” importanza. Un atto illecito e, a mio giudizio, profondamente scorretto sul piano pedagogico e gravido di conseguenze negative sull’efficacia delle strategie di integrazione e inclusione poiché ogni gerarchia culturale alza muri invece di abbatterli.
La scuola è il regno della tabula rasa, il luogo dove si creano le condizioni perché ciascun individuo possa liberare ed esprimere tutte le proprie potenzialità. La scuola è il luogo dell’assenza delle gerarchie che, al contrario, vengono imposte di continuo sotto mille forme, aperte e sotterranee. Ma è di queste ultime che mi preoccupo.
Pedagogicamente, introiettare nella mente dei nostri giovani, l’idea che prima di tutto viene l’inglese è sbagliato. La previsione di legge della possibilità che invece di studiare due lingue straniere, si possa studiare inglese per un maggior numero di ore, è un altro messaggio sbagliato, è una scelta sbagliata perché significa compromettere l’equilibrio del progetto formativo pensato per gli studenti. In ogni caso, oggi è sbagliato anche per la prospettiva sociologica, quella che – per alibi – sembrava sottesa alle scelte (sbagliate) di Governi e sindacati, sempre ultimi in ambito pedagogico.
La predominanza della lingua inglese, tra gli insegnamenti di lingue “altre”, deve ormai lasciare il posto ad una nuova prospettiva – che qui propongo – che deve essere poliglotta e cioè realmente interculturale. Un primo approccio operativo è stato la legittima ma disastrosa introduzione del CLIL, strumento di preparazione ad un cambio di rotta.
Quello a cui abbiamo assistito, impotenti, è invece un’operazione di condizionamento sotterraneo di intere generazioni di giovani, preparati ad assorbire una visione economicista del mondo. Ma il mondo della scuola deve fare l’opposto, permettere ad ogni studente di essere se stesso, non di omologarsi precocemente a modelli imposti dall’alto.
Come recuperare? Come cambiare rotta? A mio modo di vedere, una opportunità di cambiamento si può raggiungere con una scuola che non “usi” le lingue per fini sotterranei, ma che faccia delle lingue L2 degli strumenti paritari per l’educazione e la formazione degli studenti in prospettiva interculturale, attraverso l’educazione poliglotta. Non importa che non siano pronti i docenti, sono invece pronti i nostri figli, e più tardi agiremo più generazioni si vedranno negato il diritto ad una istruzione in linea col tempo che vivono, adeguata alla realtà in cui sono nati. In questa prospettiva, prettamente pedagogica, non c’è spazio né ragione per far passare gerarchie di ambito L2 nelle quali l’inglese debba occupare il primo posto. Lo stesso recente successo che sta avendo l’introduzione del cinese nelle scuole italiane dimostra che si è ancora succubi di una visione che privilegia le lingue che possono garantire maggiori chances nel mondo del lavoro dove prevalgono gli interessi economici. E che fine faranno tutti quelli che vorranno dedicarsi ad altro? Mi sembra che ci preoccupiamo senza concreta equità del futuro dei nostri studenti.
Una impostazione innovativa, interculturale e poliglotta della scuola, oggi, restituirebbe alle lingue straniere il ruolo di lingue veicolari per l’acquisizione di contenuti e competenze mirati. Immagino, cioè, scelte educative affidate al dialogo tra dirigenti scolastici e collegi docenti che, previa una attenta analisi dei bisogni e delle caratteristiche del proprio territorio, sappiano costruire piani di studio in cui ogni materia venga proposta con un idioma differente. Immagino un programma di studi che adoperi l’inglese (mi muovo qui a titolo esemplificativo) per insegnare informatica, il francese per la storia, lo spagnolo per la geografia e così via dicendo, facendo dunque ricorso ad un nucleo di lingue ricco e articolato (almeno 4 diverse da quella madre) con cui gestire gli apprendimenti e l’acquisizione di competenze. Ne ricaverebbero giovamento anche le scuole italiane all’estero, d’un tratto liberate dalla perdente competizione con l’inglese nell’azione quotidiana di diffusione dei nostri modelli educativi esemplari.
Credo fermamente che sia tempo di entrare in una nuova scuola capace di veicolare una concreta interculturalita attraverso la pratica di numerose lingue straniere. Chiunque abbia un minimo di esperienza diretta con gli alunni di scuola dell’infanzia e di scuola elementare, sa di che ricettività siano capaci i bambini di questa età. Gli istituti comprensivi sono un contenitore utile a sviluppare questa modalità formativa in vista della consegna, alle scuole superiori, di studenti capaci di apprendere più lingue contemporaneamente, senza l’onere di una prospettiva che nella L2 vede un obiettivo di apprendimento e col vantaggio di una visione che ricorre all’apprendimento poliglotta per fare acquisire la competenza della interculturalita. Proprio grazie a questa metodologia si darà concretezza alla finalità formativa che parla di inclusione, conoscenza dell’Altro, rispetto delle culture diverse dalla propria. Occorre “pensare” una scuola nuova e organizzare per tempo le risorse professionali necessarie. Finché ci limiteremo a riformare la scuola in base a ciò che le risorse professionali sono capaci di fare oggi, non avremo un domani. E la scuola, invece, ha diritto al futuro.