Non si riesce a parlarne, il tema rientra tra quelli “no politically correct”. Eppure la situazione è urgente da tempo. Sto parlando dell’eccessiva e colpevole femminilizzazione della scuola che sta producendo, da decenni, danni la cui portata si avvertirà ormai a breve, e durerà a lungo. Perché i processi culturali sono lenti come i cambiamenti che stimolano.
Il fitness: siamo tutti supereroi
Sono nato negli anni Sessanta. e ho sempre fatto sport, come tanti della mia generazione. Si andava a faticare nelle piste, nei campi, nei boschi, nelle piscine, nelle palestre. Sempre con un tocco di fai da te, ciascuno di noi. Era il modo di andare vestiti che era fai da te. C’erano i pantaloncini corti, di due tipi: da atletica (sgambati e a vita alta) o da sport di squadra: pallacanestro, calcio, pallavolo (un po’ più lunghi e un po’ più bassi). C’erano le canottiere del basket e della corsa, poi tante magliette più o meno uguali. Chi aveva la fortuna di giocare in una squadra inserita in un campionato federale, non importa a che livello, spesso si gloriava di una divisa, solitamente una tuta più simile a un comodo pigiama che ad una di quelle meravigliose mise che si vedono oggi anche per le squadre di amici che a 50 anni giocano ancora a calcetto. Insomma, ai miei tempi si faceva sport in pantaloncini e maglietta e le situazioni particolari che richiedevano qualcosa di tecnico si riducevano alla necessità, per taluni sport, di un sospensorio o un reggiseno rinforzato.
La scuola degli squilibri
Dalla mia città, Palermo, giunge la notizia di un genitore che ha picchiato un docente. Fidando in una chiacchiera della figlia, senza chiedere un confronto, il cavernicolo ha aggredito ed avuto la meglio su un insegnante, colpevole di fare l’educatore. Magari tra le sue mani imbecilli e i suoi occhi primitivi, è finita una copia fotostatica di un testo di Ibn Hawqal, autore arabo del X secolo, che proprio in Sicilia compì un viaggio in occasione del quale ebbe modo di denigrare i docenti come infedeli (ah cani!), vigliacchi e pessimo esempio per le nuove generazioni in quanto proprio essi, i docenti, si mostravano riottosi al combattimento in nome dell’oppressore. Il docente ora giace ricoverato in ospedale mentre lo scimmione se ne sta a guardare la tivu a casa con in braccio la figliola a cui starà passando perle di saggezza fognaria.
La scuola: tornare al rischio
Mi volto e guardo gli anni passati. Quando ero bambino.
- Mamma scendo.
- Dove vai?
- Giù, in piazzetta, a giocare.
- Stai attento. E non fare tardi.
E finiva qui. Era il tempo della fiducia. Che si basava sull’accettazione culturale della dimensione del rischio come prova da superare e imparare a superare. Per diventare adulti.
Provo a pensare agli anni di oggi. Quando ero genitore.
- Mamma esco.
- Dove vai?
- Non lo so.
- Aspetta che ti accompagno, prendi il cellulare e ogni tanto dammi notizie, lasciami il numero dei tuoi amici, con chi vai?
- Poi ti giro il contatto.
E finisce qui. È il tempo della diffidenza. Che si basa sull’accettazione culturale della dimensione del calcolo come illusione di controllo su tutto. Per restare adolescenti, facili da condizionare in ragione delle esigenze del mercato.
Per una scuola poliglotta
Ogni insegnamento linguistico, entro un percorso d’istruzione, è fondamentale perché si tratta, al contempo, di apprendere non solo contenuti ma anche un sistema di comunicazione. A scuola, dunque, la lingua, le lingue, hanno una priorità formativa rispetto agli altri insegnamenti.
Di tale priorità non vedo traccia nelle preoccupazioni di una classe dirigente che ha sfornato tante riforme sulla base di altre esigenze, che con la centralità degli alunni non hanno a che vedere.
Ma dove ca… vanno questi nostri giovani? (ried.)
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Il tempo della scuola
Quando si dice che “la notte porta consiglio” si dice in metafora del valore del tempo, il tempo della riflessione. Meditare, ponderare, infine decidere ed agire.
Quando si dice “tempi bui” si lamenta, sempre in metafora, come il tempo sia il bene più facile a sprecarsi. Il tempo che non insegna, il tempo che non porta giudizio, il tempo che non è mai sazio di assistere al ripetersi dei medesimi errori.
MICROSTORIE 4: voglio un fratello
- Mamma, voglio un fratellino, tu ne avevi due.
- Perché? Non ti basta la tua mamma? vedi, i tempi sono cambiati…
- Papà, voglio un fratellino, tu ne avevi uno.
- Perché? Non hai tutto quel che vuoi? vedi, erano altri tempi…
- Sì, vedo. Ma anche io ho bisogno di un complice.
Lo Stato siamo noi. E da cosa si vede?
La domanda non è affatto peregrina. La risposta starebbe nel senso di comunità diffuso che dovrebbe portare solidarietà invece che individualismo e dovrebbe sostenere politiche sociali di sostegno e cura invece di alimentare forme aperte e sotterranee di autentica prepotenza e sopraffazione.
Distribuire le conseguenze di un crimine, per un equo processo penale
La lettura del verbale che convalida gli arresti dei tre minorenni e un maggiorenne di appena 20 anni che hanno aggredito una giovane coppia di turisti polacchi, lascia senza fiato. Un congolese (il solo appena maggiorenne), un nigeriano e due fratelli marocchini fra i 15 e i 17 anni. Un branco di coetanei senza freni inibitori. Cosa succederà adesso? Proviamo a capirlo insieme.
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