La lettura del verbale che convalida gli arresti dei tre minorenni e un maggiorenne di appena 20 anni che hanno aggredito una giovane coppia di turisti polacchi, lascia senza fiato. Un congolese (il solo appena maggiorenne), un nigeriano e due fratelli marocchini fra i 15 e i 17 anni. Un branco di coetanei senza freni inibitori. Cosa succederà adesso? Proviamo a capirlo insieme.
La Polonia si è affrettata a chiedere l’estradizione basandosi sul fatto che le vittime sono polacche. Si tratta di una richiesta irrituale, trattandosi di minori. Sostanzialmente significa: sfiducia e disprezzo verso il sistema giudiziario italiano, in effetti assediato da detrattori con abbondanza di argomenti: tempi lunghi dei processi, inefficienza del sistema, permeabilità alla corruttela (tutto il settore fallimentare e della gestione dei beni sequestrati alla mafia), incertezza della pena, uso procedurale dei benefici di legge, legislazione clamorosamente sbilanciata tra garantismo individuale e tutela degli interessi collettivi.
Come dargli torto? Dato che la Polonia ha preso una ambigua posizione sugli immigrati, aderendo ad uno schieramento che si rifiuta di procedere alla ricollocazione delle quote di stranieri, chiaramente non riceverà ascolto né da noi né dall’Unione europea. La richiesta di estradizione, ritengo, è destinata a restare carta straccia. Ma qui è difficile capire chi ha ragione e chi ha torto, sebbene i polacchi si siano subito convinti che noi siamo inetti e noi che loro siano esagitati.
Per la parte italiana, dunque, ora si innescano i meccanismi di tutela dei minori che prevedono forme speciali di procedura processuale. Il sistema, sembrerà paradossale per il caso specifico, prevede che persino il primo contatto da parte dei poliziotti e del giudice inquirente siano improntati ad una delicatezza totale, così da impedire che il contatto tra i minori e il sistema giudiziario possa recare loro una qualsiasi forma di trauma ulteriore (ulteriore non rispetto al crimine, ma rispetto alla sorpresa di essere stati catturati; sfumatura di non poco conto per il prosieguo di queste riflessioni). Ciò in base al principio secondo cui un minore non è colpevole ma erede di colpe di altri, portatore sano di altrui responsabilità. Al punto che si deve ridurre nei tempi e nei modi l’impatto che il sistema giudiziario dovrà pur avere col minore per via degli accertamenti che danno luogo ad un processo (specie nei casi di reati gravi, ma mi chiedo quanto, lo stupro e la violenza che non produce un morto, siano considerati “gravi” dal nostro codice penale).
A stare dalla parte della vittima si compie un errore di valutazione avverso il quale il sistema giudiziario mette in campo alcune strategie di raffreddamento. Sempre allo scopo di considerare al di sopra di tutto la tutela del minore. Poco importa che la vittima sia una ragazzina di appena ventisei anni e poco più il suo fidanzato. Superata la soglia dei diciotto anni cade implacabile la scure. Per le vittime. Perché per gli aggressori è sempre un po’ diverso, questione di sfumature, interpretazioni, scambio di promesse e benefici all’interno di un sistema di altissima civiltà ma anche di clamorosa distanza dalla realtà contemporanea. L’idea che la civiltà si salvi a partire dal suo sistema legislativo senza che esso trovi una conferma nella realtà concreta in cui vivono tutti coloro che non sono né giudici né politici, appare oggi da rivedere. Senza tornare alla barbarie della legge del taglione, si suppone che siano tornate urgenti misure di contenimento della violenza che sono attualmente incompatibili col nostro sistema di pesi e misure che sembra rinviare ad un paese di menti illuminate, di persone dotate di senso critico ed elevato grado di istruzione, un paese in cui vigono buona educazione e rispetto dell’altro come della cosa comune. Vi pare che l’Italia di oggi si trovi in queste condizioni?
D’altra parte rilevo anche il fatto che nei processi minorili non vi è mai un giudice solo ma un collegio giudicante. Si tratta di una forma specifica posta a tutela appunto dei minori. A collaborare col giudice sono esperti di varia natura, ma sostanzialmente sociologi e psicologi. Mi chiedo quale forma di miopia abbia lasciato fuori gli antropologi culturali che in tema di violenza minorile avrebbero da dire la loro se non qualcosa in più. L’esclusione della terza, tra le discipline umanistiche, rende le indagini sociologiche valide al di là del valore della singola persona, sovrapponendo immagini complessive a immagini individuali. Così che il singolo colpevole di un reato, viene beneficiato di un’indagine sociale orientata alla giustificazione per via del malessere sociale diffuso. Altrettanto accade con le analisi psicologiche che, seppure mirate al singolo soggetto, finiscono con l’assolutizzare principi teorici dato che nessuno di loro ha mai il tempo, nelle fasi processuali, ritenuto necessario dal loro armamentario scientifico per raggiungere una lettura approfondita del soggetto (occorrono anni di terapia). Viceversa gli antropologi culturali avrebbero tutto ciò che serve per contestualizzare il soggetto e comprendere da dove nasce e perché si esprime la sua improvvisa (o meno) devianza sociale.
Mi viene così in mente, proprio sulla base di una visione antropologica, un diverso orientamento che in fase di giudizio, per delitti commessi da minori (ma estendibile anche al processo per adulti), riveda l’ordine delle priorità. Fermo restando che la tutela del minore deve mantenersi un principio operante, ritengo che se ci si muove solo a partire da questo si finisce col dimenticare la sorte della vittima. Cosa che da noi accade con una dolorosa frequenza, legittimando le richieste genitoriali e parentali in genere di forme di vendetta privata che talvolta preoccupano (giustamente) il legislatore. Occorrerebbe, allora, partire dal principio che le conseguenze inevitabili e incancellabili di un evento di reato, dovrebbero essere equamente distribuite. Posto che la giovane polacca non si riprenderà mai più da ciò che ha subito, né tantomeno il suo amico, che quanto avvenuto a opera del branco procurerà a entrambi un sofferto senso di impotenza, difficoltà di rapporto sessuale, difficoltà di relazione sociale, difficoltà di concentrazione, limitazione della libertà personale per tutta la vita (la paura di viaggiare, fare una passeggiata, sostare romaticamente in riva al mare li seguirà per sempre), sarebbe utile capire come distribuire il peso perpetuo e infinito di questo svantaggio. Il colpevole, trattato coi guanti per non urtare la sua giovane sensibilità, dimenticherà in fretta la colpa, il reato, le vittime e in qualche modo farà la sua vita, presto anche fuori dalla galera (ammesso che ci vadano). Le vittime vivranno nella prigione delle loro paure per sempre, una condanna all’ergastolo. Senza spese di mantenimento per lo Stato che invece si adopererà, forse, per aiutare i colpevoli a rifarsi una vita, forse un sussidio, uno stipendio mentre lavorano in regime di semi libertà, o altro. Questo sbilanciamento provoca quel senso di mancata giustizia che precipita lo Stato e il suo sistema giudiziario in un inferno di contraddizioni, imabarazzanti prese di posizione politica e istituzionale, frattura con la base elettiva, produce persino una arena politica feroce in cui i partiti cavalcano le diverse correnti in cerca di voti di pancia.
Se il legislatore (quelli che pur esistono con un po’ di sale in zucca) provvedesse a fornire ai giudici (che a tutt’oggi sono tenuti ad applicare le leggi che ci sono) un sistema di norme inteso ad una equa distribuzione delle conseguenze di un fatto di reato, ne verrebbe fuori una legislazione innovativa e di stampo sociale più equilibrato rispetto a quanto esiste oggi.
Concludendo: sui fatti di Rimini, tenterei di ordinare il processo sulla base della necessità di addossare ai colpevoli una quota importante delle conseguenze innescate dal loro comportamento sbagliato. Significa che per tutta la durata delle conseguenze stesse (in questo caso tutta la vita delle vittime che però hanno appena mezza dozzina di anni in più) li costringerei a lavorare per il bene della comunità in un regime che non prevede retribuzione ma fornitura di mezzi di sostentamento. Se poi fossero capaci di fare altro, di diventare altro, ci sarebbe tempo per vedere e giudicare con concretezza. Poi. Ma il dispositivo di sentenza, intanto e subito, dovrebbe prevedere forme di esecuzione della pena rapportate, con realistico senso delle proporzioni, alla durata e consistenza della sofferenza che le vittime saranno costrette a patire per effetto del crimine.
Non essendo uno specialista, potrei aver detto cose non del tutto esatte, ma resta il principio che, dal mio punto di vista, il processo penale dovrebbe essere orientato ad una maggior eequità di trattamento tra vittime (subito dimenticate e abbandonate a se stesse) e carnefici (beneficiari di un ricco sistema di garanzie e opportunità). Compiere un crimine, purtroppo, lega per sempre vittime e carnefici. Cosa di cui sono consapevoli solo le vittime mentre i carnefici, colpevolmente e con la distratta connivenza del sistema, non lo sono mai abbastanza.