La domanda non è affatto peregrina. La risposta starebbe nel senso di comunità diffuso che dovrebbe portare solidarietà invece che individualismo e dovrebbe sostenere politiche sociali di sostegno e cura invece di alimentare forme aperte e sotterranee di autentica prepotenza e sopraffazione.
Uno Stato sempre alla ricerca affannosa di soldi per mantenere le cose essenziali che di anno in anno si riducono, denunciando la difficoltà di perseguire un paniere basilare di obiettivi comuni, mostra chiaramente che qualcosa non funziona.
Tra le novità più recenti annoveriamo la scoperta dell’esistenza di un “mercato” su cui lo Stato avrebbe messo gli occhi: le case private affittate ai turisti. Distinguiamo: si tratta di seconde case che la gente comune, per lo più, affitta per qualche settimana così da procurarsi il necessario per mantenerle e comprare magari una bella vacanza (sviluppo di indotto) oppure pagare le tasse universitarie dei figli presso una di quelle università che offrono più garanzia circa un lavoro futuro (lotta alla disoccupazione). L’attuale livello di tassazione, infatti, è talmente elevato da spingere i piccoli proprietari ad arrangiarsi o a vendere (e a comprare sono sempre i già ricchi che così concentrano patrimoni sempre più grandi). È anche un modo per sopperire alla costante diminuzione dei livelli pensionistici che lo Stato offre per salvare un sistema malato e irreversibile (alternativo al prestito pensionistico o alla pensione supplementare gestito dai gruppi assicurativi); o, ancora, un modo per garantirsi una vecchiaia più serena (di fronte al progressivo calo delle prestazioni sanitarie garantite). Sembra, cioè, che il “sistema” – cioè lo Stato – debba garantire se stesso a prescindere dalle condizioni in cui precipita i suoi cittadini – cioè i “noi” di cui sarebbe composto lo Stato.
La domanda giusta sarebbe: allo Stato cosa importa se i “suoi” cittadini (lo Stato siamo o non siamo “noi”?) si arrangiano per stare un po’ meglio rispetto a come lo Stato stesso riesce a offrire loro? Non dovrebbe esserne contento come un “buon padre di famiglia” (principio base dell’ordinamento)? Eppure si accanisce proprio con coloro a cui chiede di sentirsi “Stato”. Alla ricerca di risorse aggiuntive per far quadrare i conti che lo Stato – impersonato da legioni di malandrini, ebeti, inetti, corrotti e poche ininfluenti persone per bene – non sa e non vuole far quadrare. Un paradosso.
Chissà perché ove le risorse ci sono, lo Stato non pesca, non chiede, non esige. Prendiamo ad esempio il settore del gioco d’azzardo. Dai giochi cosiddetti “tradizionali” (totocalcio, lotto, etc.) lo Stato incassa(va) un bel gruzzolo. «È l’erario, infatti, il principale percettore del flusso di risorse impiegate dai consumatori nei giochi in quanto il 53% della raccolta va alla collettività, concorrendo a formare la base fiscale dello Stato. Nel 2012, la raccolta lorda ha superato gli 87 miliardi di euro e, mentre circa l’80% di tale somma è rientrata nelle tasche dei giocatori, 8.1 miliardi di euro hanno alimentato il gettito fiscale complessivo del Paese» (A. Gandolfo e V. De Bonis, Il modello italiano di tassazione del gioco d’azzardo: linee guida di politica fiscale per lo “sviluppo sostenibile” di un mercato importante e controverso, E-papers del Dipartimento di Economia e Management – Università di Pisa, n. 173, 2013).
Parliamo di un mercato in crescita da circa vent’anni e impermeabile alla crisi che dal 2008 (ma quante altre crisi si sono succedute in Italia ininterrottamente dalla crisi petrolifera degli anni ’70 a oggi?), è diventata l’alibi per giustificare mancanze che risalgono invece alle politiche dissennate di prima e seconda Repubblica. Basti pensare che negli anni ’90 il volume d’affari era di circa 5 miliardi, il decennio successivo di 15 e nel 2005 si attestava sui 30 miliardi. Appena cinque anni più tardi, nel 2010, era raddoppiato a più di 60 e solo due anni ancora dopo era di quasi 89 miliardi. Cosa è mai cresciuto in Italia con queste proporzioni?
A consentire questa crescita esponenziale è stato l’intervento di un governo di indirizzo socialista, col decreto Bersani-Visco (Decr. L. n. 22372006, convertito dalla L n. 248/2006), che ha permesso, seppure sulla scorta di una iniziativa della precedente Legislatura, l’ingresso dei gruppi esteri e ha avviato la progressiva crisi dei giochi tradizionali (totocalcio, lotto, etc.) da cui l’Erario incassava alti profitti fiscali. Cosa che non fa con i proventi e il volume d’affari sviluppato dai nuovi giochi offerti dai gruppi privati internazionali. Sembrerà paradossale, ma questi godono di un trattamento fiscale più favorevole. E non mi pare ci siano altri settori dell’economia attiva su territorio italiano, che sviluppino fatturati più grassi. Per essere più espliciti: l’importanza del gioco sul PIL è passata dall’1,16% del 2003 al 5,51% del 2012. E ancora cresce. Ma ciò che va sottolineato è che nel 2009, un anno dopo l’inizio della crisi, i giochi on line gestiti da società straniere con fiscalità di vantaggio, hanno superato quelli tradizionali da cui lo Stato incassava una quota fiscale molto maggiore. In altri termini: quando il Paese entrava nella sua peggiore crisi, quando cioè si aveva più bisogno di denaro, lo Stato metteva in opera un meccanismo per cui sottraeva a se stesso una importante fetta del gettito fiscale e attuava meccanismi che facevano slittare il vantaggio di questo “business” nelle tasche di società straniere. Un meccanismo cannibale (o sotterraneamente voluto?), così che lo Stato ha ogni anno bisogno di entrate supplementari per rimpiazzare quelle perse nella gestione del gioco d’azzardo (che tra l’altro produce i costi della ludopatia di cui si fa carico il sistema sanitario nazionale). Allora il fatto che la nostra crescita sia sempre timida forse si spiega con ragioni diverse dalle generiche lamentele e dagli esili ragionamenti riportati nelle dichiarazioni istituzionali.
Che si tratti di una scelta politica costante lo dimostra quanto sta avvenendo in questi giorni in cui Italia, Spagna, Francia e Germania si stanno battendo… per fare approvare dal Parlamento europeo una norma che imponga alle grandi società che operano on line (Google, Facebok, Amazon) di pagare la tassazione sul volume d’affari nei paesi dove fanno i loro affari. Attualmente, infatti, le pagano nel paese di residenza fiscale, semiserio stratagemma che consente a uno solo dei membri d’Europa…, l’Irlanda (che applica il 12%), di sottrarre ai “Paesi fratelli” la loro quota di gettito fiscale . Di fronte a questo sbilanciamento, i Quattro Paesi dell’Ave Maria chiedono il pedaggio di una aliquota fiscale compresa tra il 2 e il 5%. Che paragonata al 23% che, con determinazione militare, il Governo è intenzionato a sottrarre d’autorità (in prima battuta, ché, segue conguaglio) ai “suoi” cittadini (sempre quelli che annaspano per arrivare a fine mese e perciò affittano la loro seconda casetta…), beh, fa impressione.
Così, quando dalla tribuna politica giunge l’invito a sentire profondamente che “lo Stato siamo noi”, domandiamoci da cosa si vedrebbe che “lo Stato siamo noi”. Da quel che di concreto si vede, infatti, ciò che funziona come Stato favorisce alcuni “noi” che appartengono ad una oligarchia già ricca mentre impone vincoli, obblighi e limiti ad ogni iniziativa privata diffusa dei singoli cittadini, nonostante da questa iniziativa ne potrebbe derivare un indotto di alleggerimento degli oneri statali.
Lo Stato siamo “noi”. Noi chi?
Ovviamente
neanche questo