Un antidoto alla globalizzazione: realtà locali e internazionalizzazione

Ho già avuto modo di dire che la tendenza alla globalizzazione che così fortemente caratterizza il mondo contemporaneo non è da intendersi come una chiave di lettura della modernità quanto piuttosto come il male, il carcinoma della contemporaneità. Diverso è il discorso relativo all’internazionalizzazione. L’apertura alle relazioni con gli altri paesi favorita dalla diffusione dei mezzi di comunicazione e dall’accessibilità di questi come dei mezzi di trasporto, consente il superamento delle barriere locali che un tempo definivano vari gradi di provincialismo ai quali sempre si potevano ricondurre le forme di chiusura, di autocrazia, di autoreferenzialità, di protezionismo, di estraneità, di diffidenza nei confronti dell’altro.

L’integrazione, concetto sempre al centro della riflessione sociologica, passa appunto da questa capacità che ogni Paese deve sapere sviluppare e promuovere. Ma va subito ricordato che internazionalizzare non significa perdere l’identità locale. Al contrario, proprio la globalizzazione muove con prepotenza verso una spersonalizzazione delle comunità locali. Il fatto che ogni grande città presenti il suo volto migliore nel medesimo modo, ampi viali centrali ricchi di negozi col medesimo stile imposto dai grandi gruppi mondiali, induce a un impoverimento dell’interesse culturale verso gli altri paesi. Maggiore è il grado di conformismo che la globalizzazione impone, minore è l’interesse alla conoscenza dell’altro. Si tratta, perciò, non di un processo di integrazione come frettolosamente qualcuno sostiene ravvisando nella comunanza del volto esteriore della globalizzazione la caratteristica di un divenire comune. Quello a cui assistiamo è invece un processo di spoliazione dell’identità a favore di una omogeneità delle popolazioni in un’ottica di sfruttamento planetario della capacità di spesa individuale. Ancora una volta, cioè, il centro dell’azione sociale non è più calibrato sulla persona ma sulla capacità di spesa di cui ciascuno di noi è portatore.

L’opportunità che rimane in nostra potere – e la sola possibile – è dunque quella di sostenere l’esatto contrario della globalizzazione, il valore della realtà locale. Quello che la globalizzazione comporta nelle grandi città, per esempio, è la perdita di tutte le micro identità riconducibili ai singoli quartieri di cui ogni città si compone. Nel ristretto ambito del quartiere, infatti, la presenza dei piccoli commercianti rappresenta non soltanto un tessuto economico ormai defenestrato dalla forza dei grandi gruppi commerciali – questa è pur sempre la lettura di una visione centrata sulla capacità di spesa dei consumatori – ma rappresenta una comunità umana capace di forme di controllo del territorio e delle relazioni personali che è complementare a quella esercitata dallo Stato per sostenere il valore dell’identità nazionale. C’è, in sostanza, un necessario rapporto osmotico fra le piccole e le micro comunità e il grande orizzonte unitario rappresentato dallo Stato e persino dall’Unione europea. E le difficoltà sempre crescenti che il nostro attuale Paese evidenzia nella gestione del territorio, della sua gente, delle sua organizzazione generale e particolare, mette in luce lo smembramento di questa complementarità che con incoscienza e ignoranza colpevoli non è stata tutelata adeguatamente. Il problema, qui, non è tornare indietro nel tempo e ricreare realtà che la storia ha consegnato al passato. La questione è un’altra, in particolare si tratta di sapere sostenere il valore delle comunità locali senza far venire meno la promozione di una visione internazionale. Chiaro che qui la scuola deve tornare a essere un laboratorio in cui la società progetta il proprio futuro lasciando definitivamente il suo ruolo di riserva di caccia dei sindacati che ne hanno fatto un contenitore di forza lavoro e un’occasione di rivendicazioni garantiste individuali a discapito dell’interesse collettivo e del bene comune.

Il processo di cui parlo è in atto sia nelle grandi città che in quelle piccole e piccoline. Grossi centri commerciali sorgono in prossimità degli svincoli autostradali, in luoghi dove non esiste altro che il latifondo, i pascoli e queste piccole città che talvolta assumono caratteristiche architettoniche ridicole e presuntuose, per nulla adeguate al contesto paesaggistico in cui si inseriscono. La ricerca di un risparmio e la possibilità di trovar concentrati tanti interessi diversi, i generi alimentari e i prodotti tecnologici, l’abbigliamento e gli accessori per auto e moto e così via, porta grandi masse di persone a rimandare gli acquisti giornalieri in vista della gita al centro commerciale. In tal modo si impoverisce il tessuto relazionale delle micro comunità e la successiva chiusura dei piccoli negozi porta a uno spopolamento dei quartieri e dei piccoli centri a tutto vantaggio del randagismo, della delinquenza con relativo aumento esponenziale delle difficoltà con cui le forze dell’ordine, ormai sempre inadeguate per consistenza, dovrebbero assicurare il controllo del territorio. Inevitabile il conseguente senso di spaesamento dei cittadini e, peggio ancora, il diffondersi di un senso di insicurezza che apre a forme di dirigismo, autoritarismo e sfruttamento demagogico che rappresentano le caratteristiche striscianti del nostro panorama politico e istituzionale.

Il risultato è un generale aspetto di disorganizzazione che non si vuole ancora definire caos e che invece lo è. Basterà pensare al fatto che, seppure ancora grazie a dio a macchia di leopardo, su tutto il territorio nazionale la qualità della vita è divenuta molto scarsa. Va infatti riconosciuto che la parte buona e sana della popolazione, probabilmente ormai una minoranza, vive ostaggio dei furbi, dei prepotenti, dei delinquenti e persino dei cafoni che aumentano a vista d’occhio grazie alla massiva promozione della volgarità condotta dalla televisione pubblica e privata.

Per uscire da questo gioco mortale non c’è che una strada. Occorre prendere coscienza e consapevolezza della necessità di mantenere le realtà locali contrastando il processo di globalizzazione, rivendicare il ruolo seriamente formativo della scuola e pretendere che in ogni comparto sociale vengano promossi il merito e la competenza. Da questo rinnovamento verrà il recupero di quel senso critico il cui de profundis cantò, tristemente, Theodor Adorno già a metà degli anni Settanta e senza il quale è vaniloquio pensare di far crescere il Paese e riportarlo agli allori di un tempo.

(articolo apparso nel feb 2012 su: www.nuovedissonanze.it).

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