Le banche della guerra

L’etimologia della parola Banca è interessante: si tratta, infatti, della forma femminile del termine “banco” che, secondo la documentazione storica attestata, era il luogo in cui si dava la paga ai soldati. Da lì, la parola prese una strada che la portò a occupare un posto centrale nella dimensione del commercio e degli scambi di merci, affari, valute e denari. Noi la conosciamo sotto questa veste.

Quel che ci interessa, però, è il suo legame originario con gli affari di guerra. E non per la generica considerazione che le banche siano tra i finanziatori del mercato d’armi – aspetto che talvolta è lecito seppure riprovevole, e altre, se si tratta di affare losco, diviene competenza dei giudici – quanto perché l’origine di un fenomeno pesa sul suo carattere futuro. Non credo di dire cosa priva di senso se affermo che nell’opinione generale le banche non siano viste come “amiche” quanto piuttosto come avidi vampiri o nemici tosti. L’attualità di crisi e incertezza evidenzia la fondatezza di questa pur semplice opinione. Se poi consideriamo che tutto il circo della globalizzazione si fonda su qualcosa di astratto e intangibile che va sotto il nome di “credibilità”, si comprende come l’opinione diffusa dovrebbe rappresentare un elemento importante. Il fatto è, però, che l’opinione della gente comune conta poco o nulla. Quella che conta è l’opinione dei mercati, ovvero di coloro che nel mercato impongono la regola della prepotenza, della forza, del ricatto. Naturalmente mascherando il tutto con l’ufficialità di dati, tabelle, flussi, percentuali, etc. Lo spettro di alcune conseguenze di queste forme di alibi: i licenziamenti, il calo del PIL, la perdita di investimenti, fa retrocedere coloro che in qualche misura si avventurano verso provvedimenti che dovrebbero disciplinare il settore finanziario, quello, per intenderci, che ha sostituito il mondo industriale fondato sulla produzione di beni materiali, proponendo forme economiche fondate su formule matematiche, mobilità incorporea dei flussi monetari e azzeramento di ogni legame, territoriale, umano, nazionale, tra la fonte di reddito e il contenitore di accumulo della ricchezza. Principio per il quale chi investe e muove grandi quantità di denaro, non si interessa dei danni, dei disagi, delle morti, delle disgrazie che le operazioni finanziarie comportano sul territorio e nel tessuto sociale, in nome di un arricchimento che è divenuto principio primo svincolato da ogni obbligo, etico anzitutto, ma persino legale e fiscale. Basterà pensare, infatti, alla difficoltà con cui i Paesi affrontano la questione dell’evasione di grandi capitali che solitamente transitano in quei paesi che senza alcun senso di colpa potremmo definire pustole bubboniche del capitalismo occidentale. Mi riferisco, per restare in Europa, a quei luoghi del “non essere” ma dal lardoso “avere”, che mi paiono la Svizzera e anche quel granello di opulenza che è San Marino. La loro posizione, oltretutto, li rende, pari a cellule cancerogene che tendono a metastatizzare il tessuto circostante. Per la verità si sta tentando qualche piccola terapia fondata sulla chemio dei trattati bilaterali con cui singoli paesi tentano di ottenere una ipotetica trasparenza delle operazioni bancarie che di fatto consentono l’evasione dei grandi capitali e/o la tassazione dei fondi evasi. Fondi che, è arcinoto, confluiscono in Svizzera e, per ciò che riguarda l’Italia, anche a San Marino. La disinvoltura di cui parlo, che lega privati medi e grandi da una parte e istituti di credito dall’altra, ha finito col creare quella situazione che ormai viene con indifferenza colpevole accettata universalmente quasi si trattasse di una normale dinamica del capitalismo occidentale, una guerra tra i ricchi detentori di grandi capitali e i Paesi nel cui ambito territoriale e sociale i grandi capitalisti pur risiedono e fanno i loro affari. In assenza anche solo della speranza che questi aspetti possano divenire oggetto di un’azione comune dei paesi europei, distratti da una perversa nostalgia di autonomismo nazionale, non c’è che l’azione singola dei singoli paesi, ciascuno secondo la propria capacità e illuminazione. Quel che più di ogni altra cosa risulta inaccettabile, è che a mediare questo stato di cose ci sono pur sempre le banche. Già gli interventi statali, tanto in Europa quanto in America, a sostegno delle banche che rischiavano il tracollo, è parso alla cittadinanza comune una specie di insulto. L’istinto di ribellione che è spirato dovunque, è stato trattenuto appena dallo spauracchio delle conseguenze prospettate a viva voce in termini di perdita di posti di lavoro e di aumento della povertà. Ma l’opinione comune non è mutata, le banche sono un grosso problema, anzi, un autentico e pericoloso nemico. In Italia, dove ad ogni tavolo tecnico sullo sviluppo del paese si lamenta la difficoltà dell’accesso al credito da parte degli imprenditori, dove ad ogni dibattito sul recupero del potere di acquisto delle famiglie si lamenta l’esosità, la complessità burocratica, la blindatura monopolistica esercitata dalle banche relativamente alla concessione dei mutui fideiussori, si rileva con maggiore sofferenza la condizione conflittuale che oppone le banche ai cittadini che pur le nutrono e la ingrassano. Non può stupire dunque, che circoli anche un’opinione che sospetta da parte delle banche un coinvolgimento operativo, sotterraneo e lucroso, nel riciclaggio. Qualcuno ormai si chiede se le banche davvero servano oppure no. Si tratta di una domanda che diviene ancora più capziosa se si conosce il meccanismo paradossale che lega la Banca d’Italia agli istituti di credito che operano nel nostro territorio e se si conosce il meccanismo per cui la carta stampata che chiamiamo denaro costa un’enormità già al momento della sua semplice produzione fisica. Enormità che naturalmente si scarica sul pubblico contribuente. Grazieadio c’è qualche segnale di ravvedimento. Recentemente gli Stati Uniti hanno avviato una nuova forma di lotta all’evasione fiscale e al riciclaggio, campo nel quale per certi versi possono dare lezioni al mondo intero (e noi avremmo bisogno di un corso accelerato, intensivo e tutorato). Accertato che una delle più antiche banche svizzere ha raccolto presso una sua sede del Connecticut “risparmi” per circa 1,2 miliardi di dollari, e che essa ha garantito il consueto riserbo svizzero, impermeabile persino al fisco americano, è stato avviato un procedimento di indagine che accusa la banca, la Wegelin per l’esattezza, di avere per così dire facilitato la frode fiscale dei contribuenti statunitensi. In sostanza, il procedimento giudiziario afferma ciò che l’opinione pubblica condivide: che le banche siano spesso uno strumento, forse il principale, anonimo e garantito, per il riciclaggio. Con conseguente danno per l’erario e ulteriore sotterraneo peso sui contribuenti che invece pagano ogni bendidio di tasse e balzelli, con particolare riguardo a tutti coloro che le tasse se le vedono sottrarre alla fonte in quanto dipendenti. Il governo americano ha così disposto l’immediato sequestro cautelativo di ben 16 milioni di dollari del conto che la Wegelin ha obbligatoriamente depositato presso gli Stati Uniti. Cosa concludere? La finanza, intesa come dimensione differente da quella dell’impresa produttiva, non è necessariamente un danno. Se lo è diventata è perché ha fondato la propria filosofia esclusivamente sul profitto e per fare ciò si è servita quasi esclusivamente della speculazione. Di questo sistema corrotto, corruttibile, inquinante e dai piedi di argilla, sono portatrici le banche e il loro sistema di affari. Qualcuno ha recentemente cominciato a denunciare gli addentellati, umani e societari, che rendono embricati a diversi livelli il complesso delle banche e quello delle agenzie di rating, quelle che assegnano le pagelle di credibilità agli Stati e ai grandi gruppi finanziari. Un terreno insidioso e pieno di ombre nel quale è difficile avventurarsi se non si è esperti – io non lo sono – e non adeguatamente protetti dalle quasi certe ripercussioni. Timidamente, però, comincia a venire fuori un certo disagio che coinvolge rappresentanti politici e grandi manager rispetto a un congegno che non appare limpido né, soprattutto, indipendente come pare si blateri. Seppure lentamente, inevitabilmente anche questa faccenda avrà il suo corso e prima o poi ciò che sta nascosto emergerà. Resta il dato che vede le banche non un elemento di crescita del paese ma un forte fattore di depauperamento del tessuto sociale e produttivo del paese, un fattore di ostacolo all’iniziativa privata e una delle ragioni più gravi dell’immobilismo della ricchezza pur presente in Italia. Il provvedimento del governo Monti mirato a far emergere il giro sommerso di denaro mediante l’obbligo del conto corrente, in tal senso è un ulteriore sostegno all’ordito delle banche alle quali, secondo la mia opinione, occorreva dare segnali ben più forti di una volontà di disciplina che ne allineasse il comportamento alle esigenze di rifondazione etica e strutturale del Paese che tutti avvertiamo, che tutti ripetono e che però non tutti adeguatamente e concretamente poi sanno perseguire. La guerra, insomma, prosegue finché le banche avranno soldi per i propri soldati… (articolo del marzo 2012, apparso su: www.nuovedissonanze.it)

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