Pandemia: il più grande fenomeno (non) controllato di Bias confermativo

Sappiamo tutti cosa sia concretamente una pandemia. Lo abbiamo imparato nel 2020 per ragioni di forza maggiore che ci hanno costretto ad uscire da una nozione teorica per sperimentare sulle nostre vite cosa significhi condividere a livello mondiale un problema epidemico.

Quello che non sappiamo ancora è cosa in realtà sta succedendo alla società della globalizzazione. Fino ad oggi, con questo termine abbiamo inteso fenomeni legati al commercio e alla finanza. La classifica annuale dei tycoon passata dai media di tutto il pianeta è un elemento rappresentativo e simbolico di questa concezione. Non era ancora accaduto che la società globale, intesa come massa di miliardi di persone in carne ossa e vita, sperimentasse su se stessa il contenuto di questo epocale cambiamento. La possibilità di viaggiare con RyanAir a costi accessibili per tutti, di acquistare on line un tavolo per la cucina fatto a Singapore e spedito con Amazon e altre divertenti cose simili ci restituivano una immagine simpatica e desiderabile della globalizzazione. Altra cosa è stata la sofferenza derivante dalle misure restrittive della libertà personale imposte da protocolli di salute pubblica che i vari paesi del mondo hanno assunto quasi unanimemente.

Come stiamo dunque vivendo questa nuova esperienza? Come suggerisco nel titolo: nella forma di un bias. Il termine, inglese, indica un fenomeno sociopsicologico che induce i singoli o, come nel nostro caso, collettività intere, verso giudizi che, a dispetto della disponibilità di elementi contrari e critici, vengono tenuti per veri. Una forma di fede contro l’evidenza. Perciò si specifica trattarsi di un bias confermativo. Ed in effetti se analizziamo il processo cognitivo a cui tutti siamo stati esposti nei confronti della pandemia vi rintracciamo tutte le dinamiche tipiche del bias.

Cominciamo dai dati relativi alle procedure di contenimento e prevenzione adottate dai vari paesi nel mondo. Non tutte omologhe e concordi ed è perciò che il Wall Street Journal, il Lowy Institute di Sydney e altri istituti si sono preoccupati di condurre studi a livello mondiale. Sulla base di pochi criteri (numero di tamponi eseguiti, di infermi, di morti, percentuale di positività etc.) emergono situazioni sorprendenti. Nonostante l’enfasi auto referenziale con cui i nostri media raccontano del “modello italiano” e del suo apprezzamento all’estero (quale estero?), in questi studi l’Italia si piazza al 59° posto, dietro la Germania (55°), ma prima della Francia (73°) e della Spagna (78°).

Va infatti compreso che una strategia di successo non è direttamente proporzionale alla ricchezza di un paese (vedi il caso degli USA tra gli ultimi posti della citata classifica) ma tiene una correlazione più significativa con la sua politica governativa. Si chiamano in causa le persone, nella loro unità di corpo e mente, che hanno la responsabilità di guidare il paese: tanto coloro che guidano l’azione governativa quanto l’opposizione (nessuno può chiamarsi fuori per convenienze di bottega, ciascuno ha la sua quota di responsabilità).

Se consideriamo i casi di Taiwan (reazione immediata, controllo serrato ma breve), Liberia, Senegal e Uganda (precedenti esperienze maturate con il virus Ebola), Nuova Zelanda, le Samoa americane (un paradosso nel contesto USA) e più tardi Inghilterra (isole), ci rendiamo conto che le misure restrittive adottate sono efficaci solo se adottate con un criterio di efficienza che prediliga la rapidità di attuazione e la forza di controllo in un breve periodo. La misura l’abbiamo vista anche nel motu proprio con cui tutta l’Italia si è per poco tempo messa a cantare dai balconi in un ritrovato – temporaneamente – senso di solidarietà generale. Chiedete adesso quanti hanno voglia di mettersi al balcone a cantare…

Ciò che spiega il disagio nel quale è piombata la popolazione di molti stati, italiani in testa, è la considerazione per la quale non impariamo abbastanza dagli errori. Se il significato della mascherina, la più rappresentativa delle restrizioni, ha potuto veicolare un sentimento di coesione nazionale per molte settimane, è stato perché nel breve periodo un sacrificio importante della propria libertà personale è tollerabile. Nell’immediato, la domanda esistenziale generale era concentrata sulla salute fisica dei singoli e, di conseguenza, della popolazione. Nel medio e lungo termine, al significato sanitario della mascherina (strumento di prevenzione) si è sovrapposto il senso simbolico (la “museruola”) che ha cambiato lo scenario con cui il Governo deve fare i conti quando adotta delle misure. Ed è perciò cambiato l’interrogativo esistenziale che pone quesiti sulla scelta tra morire di malattia o di fame. Ora, infatti, si chiamano in causa le persone, nella loro unità di vita e destino e le domande più profonde diventano quelle sul senso del proprio futuro e sul senso delle misure stesse, alla luce della loro inefficacia del recente passato.

Da questo quadro sociale sorgono opinioni che non sono più razionalmente fondate (come nel primo periodo) ma sono emotivamente sostenute e sostenute con forza. Il bias, appunto. Ritenere che l’uso delle mascherine sia inutile è una semplificazione colpevole, ma ritenere che sia assolutamente utile è una forzatura altrettanto colpevole. Lo è nella misura in cui è funzionale ad un obiettivo tollerabile in termini di costi sociali, soprattutto considerando il basso indice di mortalità a cui il Covid espone la popolazione.

Un approccio complesso al tema della pandemia avrebbe quindi suggerito un cambio di rotta nelle strategie di contenimento nel lungo periodo. Tornare a chiedere alle persone di restare a casa seppure con formule a macchia di leopardo, non è sufficiente e restituisce il senso di una sconfitta mai conclusa. Provoca depressione e ansietà, tutti fenomeni ai quali stiamo assistendo e che produrranno i loro effetti nei prossimi anni. Insieme a tante altre cose che oggi non si vedono, compresa una inaudita – persino per noi – crisi economica che ci travolgerà. Noi che fino al 2019 piangevamo lacrime amare per una manovra di bilancio annuale da 17.000 miliardi oggi registriamo come “normali” le richieste di singoli partiti che pretendono da 5 a 40 miliardi ciascuno per coprire i propri settori di interesse. La politica ha perso il senso della misura. Non lo perderanno i nostri creditori.

Tirando le somme, il paese oggi è diviso in due fronti. Da una parte vi sono coloro che nonostante sia chiaro ed evidente che il Covid ha un bassissimo indice di mortalità, reagiscono come se di fatto si trovassero nell’area italo-svizzera che nel 1630 registrò l’apice di una terrificante epidemia di peste bubbonica. E si accaniscono anche con violenza contro coloro che cercano di rivendicare il diritto a lavorare per non morire di fame, come dimostrano talune azioni dimostrative di gruppi di Confesercenti e altri di varia natura più localizzata. Dall’altro lato ci sono quanti si rifiutano di credere in toto all’utilità delle misure restrittive per arginare la pandemia e con il loro punto di vista appesantiscono il percorso di uscita da questa vicenda, sebbene sia noto che l’adozione di tali misure è in grado di far calare la curva dei contagi.

Nell’apparente opposizione di due fazioni, vedo dunque la continuità di qualcosa che dagli anni Settanta i filosofi chiamano perdita progressiva di senso critico. E c’è anche ciò che definiscono: invadenza della società del controllo remoto, attraverso la televisione prima e i social media poi. La sola forza sociale che persiste, dunque, è quella che promana dal “sistema” e dai suoi rappresentanti istituzionali. Fanno ciò che il sistema richiede e in buona fede ritengono di operare per il bene della società, ma sulla base del presupposto che ciò che è bene per il sistema sia un bene per la società. E non è così, come sa ogni attento osservatore della società contemporanea. Il sistema nel quale stiamo vivendo decenni di crisi dalle caratteristiche diverse ma in una continuità senza fine (Settanta, crisi petrolifera; Ottanta, esplosione del debito pubblico; Novanta, crisi della legalità; dal Duemila a oggi, crisi finanziaria), ha disumanizzato la società e la pandemia ne ha acuito i sintomi. Ma in forma di fenomeno emergente di qualcosa che era latente nel sistema già da mezzo secolo. Avremmo dovuto imparare dagli errori, ripensare scelte che si sono rivelate pericolose ma il mondo continua a cantare il coro di un mercato libero e di una democrazia liberale che di fatto hanno costruito un mondo che non ci piace e in cui “vivere” è privilegio da ricchi.

C’è una domanda che preoccupa, non tanto perché la risposta non verrà data, ma perché nemmeno la domanda viene posta a livello di dibattito pubblico. E la domanda con cui resto è la seguente: come mai ogni misura restrittiva che impone un obbligo di inattività ai singoli (commercianti, imprenditori, etc.) produce un incremento delle vendite e una crescita di opportunità per le multinazionali? Come mai la pandemia ha consentito sviluppo inaudito per i grandi gruppi del commercio, della distribuzione, del farmaco e altre? E nonostante tutto ciò sia davanti ai nostri occhi e disponibile alle nostre orecchie, continuiamo a credere che stiamo uscendo dal tunnel, che se tutti metteranno la mascherina ci salveremo, che se ci vacciniamo ce la faremo, o, al contrario, che se non facciamo nulla in qualche modo torneremo alla normalità del recente passato.

Il Covid non è aggressivo in termini di mortalità, molto meno dei suoi parenti Sars e Mers per intenderci. Sappiamo che l’80% di chi si ammala soffre una forma molto moderata, come una influenza stagionale. Ad avere conseguenze severe si calcola che giunga un 15% ma non ancora tali da costringerli ad una terapia intensiva alla quale accede il restante 5%. La percentuale generale di mortalità è molto bassa e a seconda degli organismi internazionali che ne riferiscono, si va dallo 0,6 al quasi 3%. I numeri non mentono, il modo di darli invece lo fa. Quindi non sapremo mai la vera verità. Ma quella che abbiamo davanti agli occhi, quella sì, a patto di volerla vedere.

Mascherina e distanziamento sociale utilizzati con equilibrio e flessibilità, sono un sostegno che la gente può offrire senza trasformarsi in animaletti da passeggio con museruola sempre sul muso. Le istituzioni dovrebbero comprendere che trenta persone dentro un autobus sono una evidente prova di scellerata gestione delle restrizioni per i locali commerciali a cui vengono imposti limiti di accesso irragionevoli alla luce di contraddizioni come questa. E chi amministra il bene pubblico, dovrebbe rimettere al centro delle sue preoccupazioni le “persone” in carne, ossa, vita e destino, prima e più del sistema il cui collasso tanto preoccupa. Se collassa la società, del “sistema” non resterà granché.

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