Nomen omen

Come non ravvisare nella tragedia di ieri la memoria di un’epica imperitura perché legata indissolubilmente alla parte peggiore dell’uomo? Già il calendario pesa come un macigno: 24 novembre, vigilia di quella giornata che l’ipocrisia del mondo dedica per funesta consuetudine alla celebrazione delle spoglie delle donne vittime di femminicidio. Orribile termine che nella sua irritante cacofonia riproduce il ribrezzo che deve provarsi al cospetto di un uomo che approfitti della forza per sopprimere l’alito della vita nel corpo di una donna. Vi è così tanta poesia nella grazia femminile che ogni femminicidio è contro la persona e contro la vita stessa.
Ma appare perciò oltre le nostre capacità di comprensione anche il gesto di una trentenne che ha raggiunta Palermo per dare alla luce una bimba frutto forse di un amore irriverente e perciò illecito. E dopo averla partorita l’ha deposta in un cassonetto dell’immondizia, evento che, mentre scrivo, mi fa tremare le dita e rende incerto persino lo sguardo con cui vigilo la tastiera del mio computer. Infanticidio, femminicidio e per di più per mano femminile. Nella testa mi si affollano queste parole e lo scoramento che ciascuna di esse provoca.

E c’è poi quel cognome della madre infanticida, Pilato, che evoca ricordi scolastici o di catechismo. Come non pensare a questo personaggio equivoco presente in tutti i Vangeli ma noto soprattutto per la versione di Matteo che ne ha lasciato l’immagine colpevole e melliflua che tanto ha caratterizzato la classe dirigente di questo nostro paese, erede a parole della tradizione cristiana. Pilato che si lava le mani, che potrebbe decidere ma che preferisce non decidere, non scegliere, evitare, abbandonare al proprio destino la vita di chi per pura coincidenza passa dalle le sue mani. Così ha fatto anche Valentina Pilato, disturbata o spaventata da una gravidanza che pare tenesse nascosta alla famiglia. Anche lei succube di quelle convenzioni che non ci lasciano la forza di batterci per la Vita, specie quando si tratta della vita dell’ultimo fra gli ultimi. Anche lei se n’è lavate le mani, della vita e della responsabilità di questa bimba mai veramente nata se è vero, come è vero, che ha avuto appena il tempo di tirare un sospiro prima di cedere al buio tenebroso di una morte prematura. Le mani di una madre che sono fatte per curare e assistere, per donare una carezza ma anche per sorvegliare con uno schiaffo, per dare da mangiare e fare coraggio, come possono lasciar cadere nell’antro spaventoso e maleodorante di un cassonetto dell’immondizia palermitana una così fragile vita? Mi sono trovato a sperare si trattasse di una storia di indicibili sofferenze e umiliazioni e subalternità imposte con violenza ed invece mi ritrovo il resoconto di una vicenda normale, di squallida normalità, mi ritrovo davanti ad una vita spezzata per l’ipocrisia di un’immagine familiare bigotta, desueta, antica e stupida, stupida da non capire che una famiglia forte e vera sa affrontare e superare anche il trauma di una nascita inattesa e inusuale. Perché la famiglia è il luogo di custodia di ogni vita e non c’è vita, per quanto disordinata e ribelle, che non possa trovare comprensione in essa e grazie ad essa. Perché in ogni famiglia vera, non ci si lava le mani del destino di nessuno, piuttosto ci si rimbocca le maniche e ci si adopera insieme. Voglio ricordare per sempre questa bimba che dovrebbe avere il nome di una delle sante che nell’indice onomastico della Chiesa alla data del 24 novembre, risultano tutte martiri: Firmina, Flora, Marta, Maria Anna. Di sua madre, invece, desidero lavarmene le mani, per diritto di contrappasso.

su: www.loraquotidiano.it, 26 novembre 2014

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