Marx e i pubblici dipendenti

Viviamo in un’epoca di crisi. È un adagio che tutti ripetiamo. Varrebbe la pena precisare che si tratta probabilmente di una inevitabile conseguenza di un più lungo periodo, sfuggito alla nostra attenzione più critica, in cui la confusione ha allignato grazie, soprattutto, ad incuria, abbandono e superficialità. Caratteristiche che nell’ultimo mezzo secolo hanno reso l’Italia un paese dolorosamente ignorante.

Proprio la confusione, pur disordinatamente avvertita, ha sollecitato dei cambiamenti che si sono attestati su una generalizzata accettazione del crollo delle ideologie, ovvero di quei principi che introducevano criteri di ordine nel panorama sociale ed economico creandovi, con le dovute differenze, una dinamica vitale per la società stessa. A sostegno di questa tesi accettata come verità indiscussa, e infatti non se ne discute se non per ribadirla apoditticamente, si citano gli eventi di una storia recente che ha visto frantumarsi alcuni modelli sociali improntati ideologicamente. Per dirla in breve: il crollo del regime sovietico che ha rinfocolato la fiducia nel sistema capitalistico. I tempi recenti dovrebbero quanto meno indurre a ciò che andava fatto già sul finire degli anni Ottanta: un ripensamento globale dei sistemi socio-economici.

Veniamo all’Italia dei nostri giorni. L’attuale assetto ha mostrato la fragilità di un Paese per vocazione allergico ad ogni forma di controllo. Ogni aspetto della nostra organizzazione sociale denota superficialità, giusto nel senso di una scarsa competenza organizzativa. Nella migliore delle ipotesi ciò si traduce in insufficiente profitto, scarso rendimento, caduta di motivazione, generale rassegnazione. La diffusa corruzione non è che un moltiplicatore degli effetti derivanti da quanto richiamato. Che tale incapacità sia poi da ricondurre a progettualità sotterranee mirate a un esercizio machiavellico del potere, è considerazione che devono condurre politici e magistrati. Qui, è interessante osservare, invece, come talune storiche considerazioni relative ai modelli socio-economici mostrino una attualità che può essere d’aiuto proprio in questo frangente di crisi. Mi riferisco, in particolare, alle osservazioni giovanili di Marx che pur teorizzando il concetto di “alienazione dell’operaio” rispetto al sistema produttivo, intravvedeva nel capitalismo il presupposto storico del proletariato e della sua necessaria lotta per il potere e il superamento della lotta di classe.

Osservando il panorama odierno, risulta singolare la sovrapponibilità che il quadro contemporaneo offre rispetto a ciò che nel XIX secolo Marx poteva considerare. Il fatto è che tutto ciò che ruota intorno al processo produttivo, oggi, è ancorato ad un solo indicatore di valore: il denaro. Si tratta di un elemento di oggettivazione del lavoro che da una parte consente al lavoratore di non sentirsi estraneo al processo di cui fa parte e dall’altro consente al detentore del capitale, sia esso lo Stato o il privato, di guidare l’impresa secondo il proprio interesse. Marx si riferiva agli operai del nascente sistema produttivo del mondo occidentale, oggi è più corretto parlare di lavoratori avendo cura di non confondere la relativa omogeneità del passato con la ricca articolazione del presente. Ma per dirla in termini marxiani, ci siamo messi in una condizione per la quale attraverso il lavoro e grazie al denaro, abbiamo trasferito in un oggetto arido ed anonimo le aspirazioni personali ed umane che conferivano al lavoro un valore etico e professionale oggi raro e occasionale. Non sistemico. Che ciò sia sufficiente a impedire “alienazione” è un miraggio ormai svanito.

Se per esempio pensiamo alla condizione dei pubblici dipendenti italiani, ci rendiamo conto di come si siano realizzate molte delle paure insite nel ragionamento di Marx. Paure verso le quali sono del tutto inefficaci sia gli inasprimenti di verifica e controllo emanati dal governo di centrodestra – per lo più destinati a rimanere lettera morta per effetto di una consolidata prassi di repulsione verso ogni forma di valutazione di efficacia e rendimento – sia le rivendicazioni sindacali che annientano il valore della persona in favore di una sua oggettivazione in qualità di lavoratore anonimo, da salvaguardare per principio e con astuzie corporative. Il lavoro del pubblico dipendente, infatti, è tale che mette l’impiegato in condizioni di essere totalmente estraneo al processo di cui fa parte. Non è coinvolto direttamente se non nella prassi esecutiva e anonima i cui risvolti identificativi esistono solo in ordine all’assegnazione delle responsabilità civili e penali. Nessun riconoscimento di merito, nessun coinvolgimento per la parte progettuale, nessuna partecipazione ai migliori utili derivanti da maggiore efficienza del lavoro, nessuna autonomia reale nella gestione del proprio lavoro in termini di risultato concreto e valutabile. I timidi tentativi relativi alla flessibilità oraria e alle misure incentivanti non sono che ulteriori prove di una inanità colpevole.

Nel nostro sistema, il dipendente pubblico oggetivizza una figura esterna ed estranea che possiamo identificare con le “istituzioni” tout court, essere astratto e potente da cui solo può provenire controllo, punizione, frustrazione. Questo perché il lavoro dipendente nel settore pubblico non consente a nessuno, o quasi, di realizzare la propria essenza, impoverendo così in modo coatto ogni individuo che entra a far parte di questo meccanismo sotto l’illusione del procurarsi un mezzo di sostentamento.

Ne è ulteriore conferma la passata manovra del Primo Ministro Mario Monti. Ospite di una trasmissione televisiva di grande ridondanza, aveva presentato una tabella basta su una ipotesi di famiglia-tipo composta da quattro persone, con una casa di proprietà. Nel caso di reddito familiare intorno ai 30.000 euro annui, l’effetto della recente manovra doveva pesare per circa 500 euro. La stessa famiglia con un reddito questa volta intorno ai 150.000 euro, avrebbe invece sborsato un surplus di 1.500 euro. Durante la trasmissione, centrata sul concetto di equità che la compagine governativa assicurava di avere tenuto, nessuno aveva fatto due rapidi calcoli. Il peso percentuale della manovra fiscale varata era dell’1.6% per la famiglia in soglia di povertà (così definisce l’ISTAT quelle con reddito intorno a 30.000 euro l’anno); per la famiglia ampiamente in soglia di benessere, la medesima manovra registrava un peso di appena l’1%. Ovviamente, un peso dell’1.3% uguale per tutti non sarebbe stata forse ancora equità ma certamente sarebbe stata una scelta migliore e più difendibile. Segno evidente che si mirava a fare cassa con buona pace dei principi falsamente evocati. Segno, ancor più evidente, che la manovra era mirata proprio sui pubblici dipendenti che oltre ad assicurare un gettito certo, perché direttamente controllati dalle istituzioni, sono considerati parte estranea sia del processo produttivo che di quello complementare della verifica di efficacia dello stesso processo. Una estraneità talmente invasiva da assimilare i pubblici dipendenti alla servitù di quello che persino a Marx appariva come un passato distante.

Concludendo: sarebbe utile che il Paese e i suoi – ma ne esistono più? – intellettuali dessero vita a un ripensamento complessivo della macchina sociale. Prima che sia davvero troppo tardi.

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