Il terrorismo e l’arte della guerra di Sun Tzu

C’è qualcosa che non mi convince in questo continuo richiamo a non rinunciare al nostro stile di vita che suona come un mantra infinite volte ripetuto e sempre incompreso. In questi giorni di profonda tristezza per la tragica morte di “alcuni di noi”, come forse dovremmo dire con onestà e senza infingimenti pseudosociologici, in questi tempi così inediti da disorientare tanto le oligarchie politiche quanto le masse ammansite da un liberismo sinonimo di affarismo senza regole, dovremmo porcela questa domanda. Se solo residuassero teste pensanti adatte a valutare con senso critico. 

 
Ma dopo una così lunga stagione (nella mia opinione, dal ’68 a oggi, senza interruzioni sostanziali seppure con qualche cambiamento di stile) di imbarbarimento delle coscienze, impoverimento delle menti, circonduzione delle volontà, cosa volete che resti di adeguato, addestrato, utile a respingere quella spiacevole forza di stupidità che è la violenza?
Così il mantra del nostro stile di vita, non è che l’eco che si perpetua di quella infatuazione mondiale verso il consumismo e la voglia di sorridere, quella che mascherava l’affarismo mafioso e corrotto della Milano da Bere, quella che copriva l’intreccio politico mafioso di Roma capitale replicando l’arroganza datata di quella DC che dichiarava che la mafia non esisteva. Che poi, questo stile di vita, a pensarci bene, da cosa è caratterizzato? Arrendevolezza ad ogni forma di corruzione che conduca ad un bottino, subalternità ad ogni forma di potere che consenta un arricchimento rapido e immeritato, azzeramento di ogni codice etico che costituisse un vincolo per cui restava “oggettiva” la differenza tra il Bene e il Male, prima che si affermasse l’idea che ciascuno di essi, il Bene e il Male, sono solo punti di vista, personali, precari, temporanei, mutevoli.
I leader politici contemporanei sono figli di una stagione culturale e sociale che non ha preparato nessuno di loro a questo nuovo volto della guerra. Tutti si danno un gran da fare a distinguerla dai grandi conflitti, a definirla, quella del terrorismo di oggi, una terza guerra mondiale “frammentata”. Si tratta di sofismi che denunciano una pericolosa inadeguatezza al ruolo che gli compete. Di fatto la guerra è guerra, intera o frammentata, e quella del terrorismo, del fantomatico e delirante stato islamico inebetito al punto di rappresentarsi con una bandiera a lutto, è anch’essa soggetta alle leggi della guerra. E in amore come in guerra, si ripete, tutto è lecito. Persino la loro enorme ma, attenzione, non inedita violenza. Il Medioevo cristiano ha prodotto violenze simili per efferatezza ma entro un contesto sociale e culturale capace di assorbire quell’estetica della violenza che oggi invece è profondamente mutata dal diffuso spirito democratico fondato su un concetto di “rispetto della persona” che è figlio dell’ecumenismo cristiano.
Ma la guerra è guerra. Fingere che non lo sia non giova. Forse ripara le crepe dell’attuale sistema economico-finanziario così fragile psicologicamente da non reggere all’urto della paura collettiva. Così quel mantra, che non mi convince affatto, mi sembra un’eco delle strategie di marketing che subliminalmente inducono la massa dei consumatori verso gli acquisti orientati. Qui, però, è in gioco la vita della democrazia e di tutte le persone che ne condividono i principi nonostante l’abisso di contraddizioni giornalmente espresse dalle colpevoli classi dirigenti di tutti i paesi. E qui emerge il punto debole: quello che in politica “sarebbe” necessario e con tutta evidenza non è da molti decenni, ovvero la capacità di dare l’esempio, in guerra è irrinunciabile. Nessun esercito saprebbe scagliarsi contro il nemico senza l’esempio del proprio comandante che guida l’attacco. Ed ecco che l’invito alla difesa dello stile di vita enunciato dai primi ministri, dai presidenti e da tutta la loro corte di aristocratici immeritevoli, cade sonoramente nel vuoto perché pura millanteria. Le stragi terroristiche mirano e colpiscono la gente comune nei luoghi comuni. I morti a decine e centinaia, si contano nelle pubbliche piazze, non nelle roccaforti del potere dove pure qualcosa, sporadicamente accade o può accadere.
Così torniamo al punto di partenza: chi è in grado di guidare questa guerra per conto e difesa nostra? Le polizie e le magistrature figlie di un altro tempo, quello dello stile di vita da preservare, sono le stesse che hanno fermato i terroristi e li hanno rimessi in libertà, rispettando regole di vita democratica impensabili nell’ottica della guerra al terrorismo. Oltre al danno irreparabile della morte di ignari civili, c’è la beffa delle risate acute e comprensibilmente irriverenti dei nostri carnefici, mai stupiti abbastanza della nostra incapacità di far fronte al pericolo, autenticamente divertiti dalla balordaggine delle nostre toghe così attente al rispetto delle procedure più che alla sostanza della vita e della morte. Magari, si dirà, non è colpa loro, che hanno le mani legate ed allora ecco che ancora la colpa ricade sui legislatori incapaci di adottare deroghe o nuove leggi adatte al nuovo clima bellico. Oggi, cioè, siamo in mano ad un manipolo di generali incapaci di dare l’esempio, comandanti di eserciti disordinati e confusi, impigliati in questioni di titolarità delle inchieste, in rivendicazioni gelose delle proprie informazioni e sempre una chiacchiera rimane la solita idea di una super procura europea che faccia tutt’uno delle diverse risorse inermi e sparpagliate per il vecchio continente.
Gioverà allora ricordare i principi dell’arte della guerra che resero famoso Sun Tzu, non tanto nel suo tempo (tra il VI e il V secolo a.C.), quanto nel lungo periodo successivo che lo rese quasi un mito. 
Il primo principio che viene di ricordare è quello secondo cui “Un esercito indisciplinato ne conduce alla vittoria un altro”. Che è quello che sta accadendo nei nostri civili ed impreparati campi di battaglia, dentro le nostre grandi città, dove i terroristi si muovono con la disinvoltura dei padroni di casa. 
Ce n’è un altro che riflette immediatamente la nostra già pericolosa situazione e dice: “Quando la guerra dura troppo a lungo, le armi si spuntano e il morale si deprime”. Le chiacchiere a cui sono adusi i nostri leader politici vanno proprio in questa direzione, quella dei tempi lunghi, delle trattative oblique ed opache, sotterranee, sempre alla ricerca di aggiustamenti precari degli equilibri, quasi a preparare il terreno per nuovi disequilibri e nuove tattiche (sospetto autorizzato dalla lettura di quasi tutta la storia contemporanea, sullo scenario mondiale, dalla fine della Guerra fredda a oggi). Quest’ultimo principio, è talmente importante che Sun Tzu vi torna ancora precisando che: “L’obbiettivo essenziale della guerra è la vittoria, non le operazioni prolungate”. Nel nostro caso predizione di quelle lungaggini politico-diplomatiche che paiono voler giustificare lo sforzo, deresponsabilizzare le classi egemoni dando loro una patente di bravi ma sfortunati promotori di una soluzione che però non arriva mai. 
Ma ce n’è un altro ancora che si attaglia perfettamente allo stato confusionale in cui versano tutti gli Stati, incapaci di fare fronte unico: “Se non conosci il nemico, ma conosci soltanto te stesso, le tue possibilità di vittoria saranno pari alle tue possibilità di sconfitta”. Qui, mi pare, c’è tutta la sintesi dell’individualismo culturale che pervade persino l’esercizio del potere, non a caso sopraffatto oggi da una deriva di nepotismo che non ha nulla da invidiare alle stagioni che etichettiamo come “antiche ed incivili”. Non è l’abito-alibi democratico che può ingannare il senso comune che avverte con fastidio, sebbene incapace di cambiare lo statu quo, quanto nepotismo arrogante ed impunito si sia radicato in ogni luogo dove il potere esprime una sua forma o modalità. E, intanto, la gente si demoralizza, non riesce a vedere come e se si troverà una soluzione definitiva. Dalle interviste dei giornalisti appare più frequente la consapevolezza che si sia mondializzato il clima israeliano, dove la gente sa, ogni giorno, di non sapere se tornerà a casa per via degli attacchi suicidi dell’Intifada palestinese.


Il testo di Sun Tzu offre ancora infinite riflessioni che non ho modo di condurre oltre in questa sede. Ma ce n’è un’ultima che lascio come spunto: “L’invincibilità dipende dalla difesa; la possibilità di vittoria, dall’attacco”. E che la nostra difesa sia tutt’altro che invincibile è troppo evidente. Tragga il lettore le dovute conclusioni.

3 risposte a “Il terrorismo e l’arte della guerra di Sun Tzu”

  1. Giampiero, sono talmente d'accordo con la tua disamina, che non potrei aggiungere alcun valore, se non quello della parafrasi.

    Recentemente ho guardato un discorso interessante di Dan Ariely ("Our buggy moral code" su TED Talks), avente per oggetto la truffa.

    Si tratta di un'interpretazione, che si colloca perfettamente nel tuo ragionamento. In estrema sintesi ricerche sperimentali su campioni selezionati di individui hanno portato alla conclusione, che chi imbroglia è in conflitto con due forze: da una parte vuole salvaguardare la capacità di guardarsi allo specchio, sentendosi bene con se stesso, dall'altra desiderano rubare "ma solo un pochino", sicché non venga violato quel codice morale.
    Un altro esperimento molto interessante ha rivelato che, se si chiedeva a un gruppo di persone di riassumere un libro che dovevano leggere – dietro conpenso – la totalità barava. Ma lo stesso non accadeva quando veniva chiesto loro di ricordare i dieci comandamenti. Nemmeno gli atei baravano.

    Un altro aspetto singolare è quello dell'appartenenza: se a imbrogiare era qualcuno dello stesso gruppo del campione sottoposto all'esperimento, il numero delle truffe saliva. Se invece si trattava di un membro estraneo al gruppo, accadeva il contrario.

    La morale? In assenza di un codice morale "forte" tutti tendono a "rubare giusto un pochino". Se poi a rubare è qualcuno dei " nostri" ancora meglio.

    È proprio questa forma di ignavia dilagante che tu hai ben decritto, a generare l'alibi della tiepida tolleranza, che in realtà non è che la manifestazione delle coscienze svuotate da ogni valore

  2. Caro hansludwig, e quoto in pieno questa tua conclusione: "È proprio questa forma di ignavia dilagante che tu hai ben decritto, a generare l'alibi della tiepida tolleranza, che in realtà non è che la manifestazione delle coscienze svuotate da ogni valore". Non si poteva dir meglio

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