A volte succede che gli anni che ti porti addosso ti offrano dei ricordi, per moto proprio.
La prima volta che incontrai la morte, non la riconobbi. Avrò avuto quattro o cinque anni, mia madre teneva per mano me e mio fratello e ci stava accompagnando a scuola. Ricordo la sua voce gentile e lieta che ci cullava durante il tragitto vincendo gli ultimi scampoli di sonno che ci eravamo portati sulle palpebre. Avevamo attraversato la piazza davanti casa e serpeggiato tra le auto di un parcheggio che occupava lo spiazzo Franco Restivo e ci immetteva in via Empedocle Restivo, a Palermo.
Superato l’angolo in cui per strada stavano esposte le cassette di frutta e verdura dei signori Gnoffo, un uomo e una donna dai modi villani che tuttavia gareggiavano in gentilezze quando servivano mia madre, ci trovammo su un lungo marciapiedi che fiancheggiava una pompa di benzina. Fu proprio non appena superammo l’area del distributore che avvenne.
Le nostre chiacchiere furono improvvisamente interrotte da un rumore assordante che solo molto tempo dopo imparai a riconoscere come lo stridio beffardo dei freni che nulla possono contro un urto inevitabile. Mentre ancora camminavo, il mio sguardo si era posato su una signora anziana che di tanto in tanto intravedevo nel quartiere e che avevo imparato a fuggire per via di una malformazione sul suo viso che da bambino mi metteva una paura irrefrenabile. Mia madre aveva più volte spiegato a me e mio fratello che si trattava di una buona donna, che si arrangiava con lavori da sartina dato che non aveva un marito che pensasse a lei.
La donna, al mattino presto accompagnava due nipotini nella stessa scuola che frequentavamo anche noi. Era d’inverno, e lei, piccola di statura, superava di poco i due nipoti che avevano un’età simile alla nostra, tra i cinque e i sei anni. Ricordo ancora, dopo più di cinquant’anni, la sagoma di quelle tre persone. Indossavano il cappotto tutti e tre, lei portava scarpe basse, comode e prive di ogni vezzo di femminilità. Teneva per mano i nipoti e stava attraversando la strada sulle strisce pedonali, a breve avrebbe incrociato la nostra traiettoria, perpendicolare alla sua.
Il bambino più piccolo, quello che teneva con la mano destra, più in vista rispetto al fratello – erano anche loro due maschietti vicini di età come me e mio fratello – vestiva un cappottino marrone color cammello ed aveva una sciarpa rossa ed un berretto di lana pure rossa, con un pompon al centro. Mentre osservavo quella scena e prevedevo di incrociarli non appena fossero saliti anch’essi sul nostro marciapiedi, giunse quel fischio terribile che mi costrinse a girarmi per guardare in strada, esattamente come fecero mia madre e mio fratello.
Un’auto si materializzò all’improvviso. Non vidi l’impatto con l’anziana signora e i due bambini perché il corpo di mia madre me ne impedì casualmente la vista. Neanche mio fratello vide nulla, come mi confessò molti anni dopo, quando rievocammo questa storia sepolta nei ricordi perduti della primissima infanzia. La nostra altezza ci penalizzò per la presenza delle auto parcheggiate che non ci consentirono una visione chiara ma anche ci salvò proprio per l’impedimento che ci offrì.
Durante una rapidissima serie di pochi istanti, udimmo il rumore secco dello scontro a cui seguì un silenzio innaturale, come se una nuvola di ovatta fosse improvvisamente scesa a coprire il mondo o giusto quel pezzo di mondo in cui ci trovavamo noi. Alzai gli occhi al cielo e dal blu di quella immensa e placida distesa, vidi ricadere al suolo un cappottino marrone chiaro ed una sciarpa rossa. Li vidi fluttuare nell’aria per qualche istante e toccare terra con la delicatezza dei petali esausti.
Poi la scena riprese la sua sonorità naturale, come se il mondo si fosse fermato solo un istante. Si udirono voci ed urli, qualcuno si mise a correre, sentivo piangere e capii che l’autista era disceso dalla sua auto per constatare le conseguenze dell’incidente. A quel tempo ancora si usava prendere coscienza. L’incidente era avvenuto a pochi metri da noi. Il mio sguardo di bambino aveva casualmente colto nei dintorni gli attimi che presagivano quanto sarebbe accaduto. I nostri passi quotidiani ci conducevano all’altezza di quelle strisce pedonali che chi abitava dall’altro lato della strada doveva attraversare per raggiungere la nostra stessa scuola.
Posai lo sguardo sul cappottino marrone che avevo visto cadere dal cielo e che ora contemplavo sul cemento di una porzione di marciapiedi appena davanti a noi, poco oltre l’angolo della scorciatoia che prendevamo per arrivare a scuola e che avrebbero imboccato anche i nostri vicini se non fossero stati investiti. Chiesi a mia madre, nella concitazione di quei momenti, che fine avesse fatto il bambino che indossava quel cappottino. non riuscivo a scorgerlo da nessuna parte. Di lui, nella mia memoria, era rimasto solo il cappotto e poco più in là la sciarpa rossa. Mia madre rimase in silenzio mentre anche mio fratello si era messo in attesa di una risposta alla stessa domanda. Lei girò lo sguardo un paio di volte come cercando una risposta.
Le dissi anche che avevo visto volare il bambino col cappotto e la sciarpa ma che poi avevo visto tornare dal cielo soltanto gli abiti. “Perché lui è già andato in cielo”, ci rispose senza indugio. Compiuto un altro giro di orizzonte con lo sguardo, probabilmente per accertarsi che qualcuno stesse già provvedendo a soccorrere le vittime dell’incidente, impresse una sferzata ai nostri corpi inchiodati sul marciapiedi e ci diresse verso l’angolo da cui si apriva la scorciatoia che sbucava in via Abruzzi, un centinaio di metri prima della scuola elementare Tomaselli. Mio fratello ed io andammo a scuola. La mamma ci salutò con un’aria sospesa tra l’istinto di proteggerci e la paura.
Eravamo troppo piccoli per avere coscienza della morte, non l’avevamo riconosciuta, né io né mio fratello. Nostra madre sì. La sua spiegazione che il bambino investito fosse già volato in cielo, pur offrendoci la verità e cioè che fosse morto sul colpo, ci aveva dato una ragione della sua sparizione e ci aveva messo al riparo del dolore per una vita umana banalmente perduta in un normale mattino della vita di ogni giorno.
Fu quella la prima volta che incontrai la morte.
Le parole di una mamma competente, sensibile,hanno saputo opportunamente proteggere e tutelare i propri bambini, generando sensi e trasformazioni di situazioni che se trascurate o mal raccontate, possono portare a traumi lasciando a volte segni dolorosi… Complimenti a quella mamma che ha saputo dare al bambino dal cappottino e la sciarpa Rossa un dignitoso volo oltre l’orizzonte…e ai propri bambini, la prima restituzione di una fine a volte inspiegabile…
A quel tempo ancora si usava prendere coscienza……”. Stupenda descrizione, grazie.