Generazione Erasmus: l’esempio dei giovani

Sul Corriere della Sera di oggi 26 novembre, a pagina 29 leggo un articolo di Orsola Riva che così intitola: “Italia ultima per numero di laureati”. I risultati del rapporto OCSE “Education at a guance” danno all’Italia l’ennesimo triste primato in una classifica che osserva i 34 paesi più industrializzati al mondo. E guardando al rapporto tra PIL e investimento nell’università, la situazione non è dissimile, ci collochiamo al quartultimo posto. L’articolo poi spiega che le nostre università sono ancora troppo legate a modelli di insegnamento troppo teorici e denuncia il ritardo dei nostri atenei in tema di organizzazione, specie guardando agli insufficienti livelli di stage e raccordi col mondo del lavoro. Ma il boccone amaro si manda a malapena giù quando si apprende che nonostante gli sforzi enormi sostenuti da chi comunque una laurea la persegue, i laureati hanno davanti un tasso di occupazione di un punto percentuale inferiore a quello dei diplomati (62% contro il 63%).

Poche pagine dopo, esattamente alla pagina 35 dello stesso quotidiano, un altro articolo, di Massimo Gaggi, che dichiara: “I giovani tornano ottimisti, nove su dieci certi di trovare il lavoro dei sogni in 5 anni”. Qui il tono è, al contrario, entusiastico. E non è cosa da poco se ci si ricorda che il nostro paese ha un tasso di disoccupazione giovanile che resta ancorato a cifre record sul 40%. I giovani del campione studiato, tutti tra i 19 e i 26 anni, come hanno potuto esprimere questa visione così ottimistica? Da cosa viene questa fiducia che certamente non è frutto di visione realistica se la cornice è la politica di casa nostra, fatta eccezione per provvedimenti troppo recenti per avere mutato il quadro. L’articolo non lo spiega, ma fornisce un indizio quando allude ad una diffusa esperienza di questi giovani ai progetti Erasmus.
La risposta, infatti, è tutta qui. Questa generazione ha allargato il proprio orizzonte, è uscita dalle radici casuali della nascita e si è approcciata ad una identità europea, scelta invece che ricevuta per destino. E la loro fiducia si basa su questo allargato, arricchito orizzonte che fa dei paesi europei una community. Parliamo di giovani, quelli della generazione Erasmus, che ha lasciato casa, affrontato una vita semplice e spartana, spesso in condizioni di piccola comunità con altri studenti di altri paesi europei, per sei mesi o un anno, magari all’interno di una esperienza di studio già impiantata in una città diversa da quella di residenza, ha prodotto una meravigliosa categoria di giovani open minded. Giovani che non hanno pregiudizi verso l’Altro, che non soffrono ma godono delle differenze culturali, che apprendono le lingue con entusiasmo perché trovano gratificante sapersi esprimere in due, tre o più lingue. Sono ragazzi che dunque hanno messo da parte il volume frivolo della nostra esistenza da consumatori ed hanno recuperato alcuni valori di comunità, come l’amicizia, la solidarietà, l’altruismo. Giovani che si danno aiuto, che a turno si offrono il pranzo, si sostengono in occasione di un esame, giovani che condividono l’ansia di un voto e la gioia di una promozione.

E a ben guardare sono gli stessi giovani che all’indomani della strage di Paris, non hanno reagito con l’auspicio di quelle chiusure che sono state istintivamente evocate dagli adulti, sono quelli che all’indomani dei fatti del Bataclan non hanno smesso di guardare ai loro amici di fede islamica con cui hanno condiviso spazio e tempo di quella età felice che è la giovinezza. Ed è da loro, che dovemmo prendere esempio, dimettendo l’illusione che si possa essere noi di esempio a loro. Forse proprio da questa inversione potrà nascere quel futuro migliore che sempre diciamo saranno i giovani a portare.

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