Standard and Poor’s in casa del cornuto

Standard and Poor’s Corporation (S&P) ha ulteriormente declassato l’Italia. Ci collocano al gradino più basso della fascia ritenuta utile per gli investimenti. Da qui in giù, saremo additati come far west in cui non conviene investire. Saremo, cioè, territorio selvaggio e imprevedibile di speculazioni, dato che la spregiudicatezza degli operatori finanziaria ha un lato political correct che si definisce “investment” ed uno no correct che si chiama “speculative”. Inutile dire che trattiamo di moneta che, universalmente, possiede, appunto, due facce.
Questa agenzia, nata negli anni Quaranta per garantire trasparenza, da quando è stata acquistata negli anni Sessanta da un colosso finanziario, è entrata nel vicolo cieco dei conflitti di interesse mai risolti. Una cosa per la quale, dato il suo ruolo di terzo giudicante, richiama il detto nostrano secondo cui mai si dovrebbe parlare di corna in casa del cornuto. Ma qui la casa non è l’Italia, dove le corna non mancano a sentire la cronaca quotidiana. Lascia infatti perplessi l’accanimento con cui questa agenzia tallona la credibilità finanziaria italiana dal primo manifestarsi della crisi partita nel 2008. Proprio quando il paese sta facendo uno sforzo inedito per portare avanti riforme strutturali il cui principale obiettivo è ridare ossigeno alla credibilità finanziaria del paese, ecco che arriva l’ennesimo declassamento a BBB-. A leggere la scala di giudizio cui fa riferimento l’agenzia, si fatica a comprenderne l’oggettività, posto che i margini di discrezionalità nel passaggio tra i gradi interni della fascia con tripla B sono infiniti. Non mi pare di poco conto, allora, l’uscita di Mario Draghi: “bisognerebbe imparare a vivere senza le agenzie di rating o quanto meno imparare a fare meno affidamento sui loro giudizi”. D’altra parte basterà ricordare che le tre più note agenzie di rating promossero a pieni voti l’istituto di credito Lehman Brothers poche settimane prima del su clamoroso fallimento. E non si pensi si tratti di un caso isolato. Accadde altrettanto con la casalinga Parmalat poco prima del suo crack. Perciò, non posso che concordare con Draghi.

Ma per tornare infatti al conflitto di interessi della S&P, si sappia che quasi la metà del suo volume d’affari viene dall’attività di consulenza nel credito strutturato. In termini semplici: una società che intende emettere titoli si rivolge a loro per counseling su come strutturare il titolo per ottenere un buon rating, un buon giudizio. L’emittente segue alla lettera ed entra nel mercato azionario. L’agenzia S&P si affretta a rilasciare un rating positivo. In quanto corrispondente ai propri criteri di giudizio. Da uomo di scuola dico: S&P si impegna molto ma non ha metodo, spesso è inconcludente e non ha raggiunto i livelli di base. In sintesi, una bella tripla D.

su www.loraquotidiano.it, 7 dicembre 2014

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