Le Fondazioni da affondare

Ho già avuto modo di precisare che “le banche non sono più un elemento di crescita del paese ma un forte fattore di depauperamento del suo tessuto sociale e produttivo”. Rimandando a tempi più sapienti una riflessione sul persistere di una reale utilità delle banche nel mondo contemporaneo, auspicavo che il governo Monti fosse in grado di dare segnali ben più forti di una volontà di disciplina che allineasse il comportamento degli Istituti di credito alle esigenze di rifondazione etica e strutturale del Paese. Prontamente, invece, ne è venuto fuori un atteggiamento di stampo ricattatorio che ha portato i vertici dell’ABI alle dimissioni. Il presidente, Giuseppe Mussari, ha avuto la divertente intraprendenza di definire il suo gesto una forma di protesta contro il decreto sulle liberalizzazioni. Ma nessuno, però, ha sorriso quando – come pare – la divertente intraprendenza di cui si diceva lo ha spinto alla clamorosa dichiarazione riportata da tutti i giornali: “L’ennesimo attacco contro le banche, saremo costretti a rivedere il sistema di finanziamento alle imprese e alle famiglie”. Più o meno come l’annuncio di uno sciopero del reparto rifornimento armi e munizioni durante lo svolgimento di una guerra. Che le banche siano oggetto di attacco, se il confine d’analisi resta la Penisola, mi pare battuta esilarante, al punto che ne suggerirei l’uso in una storia a fumetti delle Banche d’Italia. Si tratta, piuttosto, di riprovevole ripicca per il decreto che introduce riduzioni della pecunia garantita, ovvero di protesta per la cancellazione di quelle commissioni con cui i conti correnti di tutti gli italiani, obbligati ad averne uno, vengono giornalmente corrosi di piccole cifre in addebito che alla fine dell’anno, calcolate tutte insieme, pesano come una spesa importante. Il decreto Monti, in sostanza, toglie liquidità alle banche e alle loro operazioni di allegra finanza, quelle – lo dico per inciso – che se la fortuna aiuta, producono dividendi per i proprietari, ma che diventano “prodotti finanziari” da rifilare ai propri clienti se invece la fortuna volge da un’altra parte. Ancora una volta, mi pare, emerge una inclinazione genetica delle banche a stare dentro situazioni poco chiare e di conflitto, a muoversi in una dimensione bellica che sempre ricorda il peccato originario «del termine “banco” che, secondo la documentazione storica attestata, era il luogo in cui si dava la paga ai soldati» (ND, n. 4, feb. 2012). Va per altro ricordato come in Italia viga un sistema le cui ratio e complessità sfuggono all’opinione pubblica. Mi riferisco all’innovazione risalente al 1990 che via via obbligò tutte le Casse di risparmio a trasformarsi in Fondazioni. Autentiche finzioni giuridiche che dovrebbero prolungare l’onere che fu delle Casse di badare al sociale e di impegnarvi l’utile prodotto dalle Banche, divenute semplici controllate delle Fondazioni stesse. Nell’idea originaria, si trattava di una soluzione al problema della commistione tra interessi commerciali e speculativi (propri delle Banche) e compiti di assistenza e beneficenza (caratteristici delle Casse). In realtà si voleva rendere appetibili le nostre banche agli investitori stranieri e per farlo occorreva separare l’attività imprenditoriale da quella di raccolta di capitali. Gli enti bancari divennero così società per azioni, sotto il controllo di fondazioni, che avrebbero dovuto collocare le proprie azioni sul mercato. Questa situazione, tuttavia, non è nata né chiara né semplice. Dopo la legge del 1990 ci vollero altri dieci anni per iniziare a sgomberare alcuni comodi equivoci che nel frattempo garantivano lauti guadagni a chi ne aveva meno bisogno e grossi debiti a chi meno ne poteva pagare, cioè lo Stato col suo debito pubblico. Nemmeno oggi è del tutto chiaro questo rapporto tra Fondazioni e istituti di credito ma è invece chiaro che la gestione delle Fondazioni ha nel frattempo prodotto più danni che vantaggi. Il processo di globalizzazione che ci è stato propinato come ragione perpetua degli accorpamenti societari e delle relative estinzioni di istituti storici (vedi il Banco di Sicilia) è diventato un po’ come lo stress in medicina: spiega tutto ciò che non possiamo spiegare. Sebbene, in verità, il “non possiamo spiegare” della medicina sia un’ammissione di umiltà laddove il “non possiamo spiegare” della giungla bancaria appare piuttosto come il no comment del Pentagono sulla questione dell’area 51. Colpisce dunque con particolare ruvidezza il tracollo di una Fondazione storica e accreditata come il Monte dei Paschi di Siena che già nel nome si porta dietro un alone di importanza ahimè, tutta autoreferenziale. L’annunciata perdita di quattro miliardi di euro mette a repentaglio l’esistenza stessa di questo antico e – ritenevamo fino a ieri – prestigioso istituto bancario. Com’è potuto accadere? Si chiederà ancora qualche ingenuo. Semplice, la legge del 1990 che si pretendeva risolutiva di importanti aspetti gestionali, ha invece creato l’ennesimo alibi perché la politica introducesse anche nelle banche i suoi avidi nullafacenti, i suoi irresponsabili incompetenti di qualsivoglia dottrina e scienza, i suoi tanti e trasversali “mister ok” e baronetti “abbiamo una banca”. Non stupirà apprendere, allora, che lo staff direttivo delle Fondazioni è nominato dalla politica, quella locale che sotterraneamente risente degli appetiti di quella nazionale a cui poter chiedere in cambio trampolini di lancio e corsie preferenziali che facciano prendere un po’ d’aria romana a chi soffre del vento provinciale della cittadina natia. Osmotico e cancerogeno delirio di onnipotenza che paga profumatamente gli “eletti” a sedere sugli scranni delle Fondazioni, immemori persino dell’inutile ortografia e impermeabili ad ogni etica del buon padre di famiglia, dissennati sovrani di iberica cupidigia che senza pagare alcuna responsabilità, hanno lucrato e lucrano prebende da nababbi che neanche sceicchi e califfi, pur navigando sull’oro nero, concedono alle loro concubine. Punta dell’iceberg di quel male diffuso che nel Paese si chiama incompetenza, che produce consenso elettorale, controllo istituzionale e si serve della retorica sul merito come arma letale contro la reale applicazione di criteri selettivi fondati sulla capacità professionale. L’effetto a ricaduta, dalle fondazioni alle banche, è quell’insano miscuglio che di ogni pietanza del vivere sociale italiano fa una poltiglia imputridita dal fatale ingrediente della politica, quella dei partiti. Si tratta di un settore economico che raccoglie circa 50 miliardi tra valori e beni patrimoniali e, soprattutto, si tratta di un patrimonio in gran parte appartenente alla collettività ma gestito, grazie ad una legge del 1992, in base ai principi del diritto privato. Una contraddizione apparentemente. Una strategia, naturalmente. Perché il controllo delle Fondazioni bancarie e per il loro tramite degli istituti di credito, pone la politica in una situazione di potere fondamentale. Attraverso le banche, infatti, si controlla l’ossigeno da dare al mondo del lavoro. Al punto che le dimissioni dell’ABI, nel particolare contesto che stiamo vivendo, appaiono dunque un segnale molto equivoco che autorizza persino una lettura politica. Una lettura per la quale, sotto “banco”, gli stessi partiti che apparentemente sostengono il governo tecnico, opererebbero in realtà per il suo naufragio o per il suo condizionamento quando si tratta di intaccare i poteri forti, quelli che sempre hanno condizionato la storia d’Italia. Le fondazioni, a mio parere, sarebbero da affondare, ma il rischio più probabile è che siano esse ad affondare il governo tecnico che pur qualche correttivo tenta di introdurre. (per il resto dell’articolo si veda su: http://www.nuovedissonanze.it)

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