Il Parlamento e l’impossibile cambiamento

Quanto spesso si parla di cambiamento in Italia? Molto e per lo più inutilmente o per finta. Non vi è settore in cui non si avverta questa esigenza che pure, una volta concretizzata in preliminare iniziativa legislativa, sempre pare arenarsi davanti alle tante aperte conflittualità (e alle infinite sotterranee) che dividono, quasi su ogni dettaglio, le squadre presenti in Parlamento. La domanda, dunque, diviene per forza di cose la stessa di sempre: cosa succede alle Camere che frena o impedisce ogni cambiamento?

Al di là delle dichiarazioni pubbliche che obbediscono a esigenze di marketing, ricerca del consenso, assuefazione dell’elettorato, “visaging” e promozione del sé estetico, occorre comprendere il corpo sociale che complessivamente costituisce quella piccola folla di privilegiati che occupano i Palazzi del Potere democratico. Tra i 630 della Camera e i 315 del Senato abbiamo un nucleo di 945 rappresentanti. Ognuno di essi, aritmeticamente, è il punto di riferimento di 63.500 cittadini. Un rapporto abbastanza largo che non fa comprendere come, per ovviare al problema dell’eccessiva spesa pubblica, si debba provvedere diminuendo i parlamentari. Una riduzione del loro numero, infatti, renderebbe inevitabilmente più “potenti” i sopravvissuti e renderebbe ancor più difficile di oggi il rapporto diretto tra elettori e rappresentanti. Il problema, quindi, non sta nella anti-democratica diminuzione dei parlamentari e chi la propone, evidentemente, ha interesse a mantenere l’attuale stato di privilegio ed eccessiva retribuzione. In questa prospettiva, la soluzione più rispettosa della rappresentanza democratica consisterebbe nella diminuzione degli stipendi e nella eliminazione di privilegi.
Facciamo due conti ed un confronto. Utilizzando termini reali, riportando cioè al valore dell’euro nel 2005 anche gli stipendi dei decenni passati (fonte: Controlacrisi), il livello della retribuzione degli onorevoli italiani ha registrato, in 60 anni, un aumento che va dai 10.712 euro del 1948 ai 137.691 euro del 2006. In termini percentuali significa un aumento medio del 9,9% all’anno ed un incremento totale del 1.185,4%.
Veniamo ora al confronto: nel medesimo periodo, negli Stati Uniti la retribuzione lorda, questa volta in dollari del 2005 (stessa fonte), è cresciuta dai 101.297 dollari del 1948 ai 160.038 dollari del 2006, con un aumento complessivo del 58% e un incremento annuo dell’1,5%. Visualizziamo meglio:
aumento medio annuo %          Italia 9,9                             USA 1,5
aumento complessivo %          Italia 1.185,4                       USA 58,0
Si aggiunga che a pari di una tale crescita non si registra certo una maggiore qualità dei parlamentari, come ogni cittadino italiano che segua la politica può personalmente constatare. Se però, a voler essere pignoli, si dovessero cercare criteri oggettivi, allora dovremmo utilizzare quello a cui i nostri stessi ricchi legislatori fanno ricorso: il titolo di studio. Ecco allora che vengono fuori altri dati interessanti che dicono di più delle note di costume con cui abbiamo appreso che alcuni dei più famosi politici, come D’Alema, Rutelli, Bertinotti, Bobo Craxi, Follini, Gasparri, Bossi, Prestigiacomo, Miccichè, non hanno una laurea.
Il numero di coloro che, seduti in Parlamento, hanno attraversato il rigore, l’impegno e i sacrifici di un percorso di studi di livello universitario, è in continua e inesorabile discesa. Considerando sempre lo stesso arco temporale compreso tra il 1948 e oggi, durante la prima legislatura dell’Italia repubblicana si registrava un 91% di laureati contro l’attuale 64,6% (fonte: Boeri, Merlo, Prat “Classe dirigente”, ed. Università Bocconi). Si tratta di un vertiginoso calo del 26,4%. Anche non fidandosi delle statistiche universitarie e andando a controllare i dati riferiti dal servizio anagrafe della Camera dei Deputati, si apprende che nel 2004 la percentuale di laureati era del 69,3%, di poco superiore a quella riferita ad oggi. Se si vuole ripetere il confronto con l’America, allora si scopre che negli Usa i parlamentari con laurea sono aumentati dall’88,5% del 1947 al 93,9% del 1993 (fonte: Boeri, cit.).
Il dato emerso va messo in relazione con la provenienza professionale degli eletti in Parlamento. Secondo uno studio del Sole 24ore, infatti, alle elezioni del 2008 è risultata maggioritaria la presenza degli avvocati, che non ha mai conosciuto vere flessioni, attestandosi al 14% alla Camera e al 14,3 % al Senato. Per comprendere l’invadenza del dato è sufficiente accorpare le altre libere professioni – ingegneri, architetti, biologi, consulenti, etc. – da cui si ottiene una percentuale complessiva del 12,9% fra i deputati e del 16,2% fra i senatori. Di rilevo la forte crescita degli imprenditori che costituiscono il 10,6% alla Camera e l’11,7 al Senato.
Da non dimenticare, valutandolo a parte, il dato relativo ai “professionisti” della politica, quelli che non tornano mai a nessun altro mestiere e che più di tutti temono il famigerato “trasloco” dalle stanze loro assegnate. Costoro rappresentano il 12,9% alla Camera e il 7,3% a Palazzo Madama. Dati simili anche per i giornalisti, attestati al 10,5% alla Camera e al 7,3% al Senato. In discesa la categoria dei dipendenti come gli insegnanti e i professori, gli operai e gli impiegati, che non riescono a far fronte agli investimenti economici necessari per conquistare uno scranno parlamentare.
La conclusione che se ne può ricavare è che la classe dirigente del nostro Paese ha una insufficiente sensibilità di base per avvertire i bisogni del cambiamento che altrove vengono recepiti e praticati con più rapidità ed efficacia. Ostano, più di tutti gli altri, gli avvocati che nell’attuale ginepraio di leggi babeliche e intrighi contraddittori giustificano una numerosità ridicola per l’imponenza e il rapporto con la popolazione residente. Basterà pensare che in Italia le stime ufficiali danno una presenza di circa 155.000 avvocati (ma non si riesce ad avere dati certi e si sospetta che il totale complessivo sia molto maggiore), con una rappresentatività di 1:387, ovvero di un avvocato ogni 387 cittadini. Il loro generale alto tenore di vita fa intuire quanto ciascuno di noi contribuisca per quantità di cause e quantità di spesa al loro tornaconto. Se a costoro aggiungiamo quelli che senza un mestiere insistono per tutta la vita a fare i parlamentari, comprendiamo bene perché le leggi di semplificazione e innovazione tardano ad arrivare giusto quei due o tre decenni che servono a disinnescare ogni loro carica di innovazione e semplificazione. Sigh!

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