Di Elettra e dell’equilibrio mancato

Non so cosa abbiano visto in occasione dell’inaugurazione della nuova stagione delle rappresentazioni classiche del tetro gracido Siracusa. L’Elettra che rovisto io il 6 giugno, di sicuro lascia perplessi. Sembra inizialmente imponente la scenografia di Alessandro Camera, ma le scelte registiche la rendono in sostanza un cumulo pietroso estraneo alla scena, se non per il ruolo, forse, di simbolico senso di colpa che sovrasta la dimora degli Atridi. Via via che entrano gli attori si apprezzano i costumi di Andrea Viotti che tuttavia non possiedono il merito di restare incisi nella memoria per l’originalità e la “giustezza” rispetto alla scelta teatrale.

A restare inagito non è soltanto il blocco monumentale scenografico, anche il coro è poco partecipe dell’azione e, sopattutto, scarsamente impiegato per marcare la tragicità dell’opera. Si ha quindi un quadro complessivamente debole, come un puzzle slegato, che lascia sfuggire tanto i contorni quanto il soggetto centrale dell’immagine che propone. 
E l’immagine centrale che la scelta di Gabriele Lavia propone, è quella di un dolore personificato nell’esistenza femminile di Elettra, dieci anni dopo l’assassinio del padre e dieci anni dopo l’inizio della sua nuova condizione di serenata casa del padre. L’attrice, Federica Di Martino, probabilmente alla ricerca di un equilibrio tra formalismo classico e reinterpretazione in chiave moderna, fallisce clamorosamente l’obiettivo e precipita in una recitazione fredda, artefatta, dai toni enfatici fuori misura come ci si attenderebbe dam principiante che carica i toni tragici per mancanza di personalità. Tutto di lei è eccessivo e senza controllo: la recitazione incessantemente lamentosa, irritante per lo spettatore per la sua prolissità superflua e persino la prossima, il suo muoversi sempre zoppicante e incerto, il suo continuo cadere a terra, la sua artificiosa disperazione che invece di muovere a compassione suscita ilarità o fastidio. Per fortuna, in alcuni momenti la presenza di Pia Lanciotti, brava nel ruolo di Crisotemi, riesce ad equilibrare il pathos scenico sempre compromesso dall’eccessiva insistenza di Elettra.
Certamente la regia di Lavia, dopo sedici anni di assenza, non colpisce per nessuna qualità particolare, il tono complessivo della tragedia è tiepido, senza coraggio, senza vertici sarebbe il caso di dire. A salvare lo spettacolo, per fortuna, giunge l’ottima interpretazione di Clitemnestra, affidata alla esperienza e alla personalità di Maddalena Crippa che sul palco si muove con la signorile padronanza di una vera donna di teatro. Di poco spessore, inoltre, Oreste interpretato da Jacopo Venturiero, personaggio acerbo ed in bilico tra una virilità tragica ed una leggerezza efebica che l’attore non riesce a risolvere con la sua personalità. Ed infine il Coro, tiepido, a tratti invisibile, non certo per colpa propria poiché è frutto di un’idea del regista che qui non convince né affascina. Sono scelte personali dell’artista per cui non starò a dire cosa si sarebbe o non si sarebbe dovuto fare, ma da spettatore non posso che lamentare l’incorporeità del coro che lascia una sensazione di teatro mancato che è, in conclusione, la stessa sensazione che mi è rimasta da questa sfortunata edizione di Elettra 2016.

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