Per un aiuto ai giudici

Ho provato ad adoperare i consigli del Santo Padre che recentemente ha scritto un documento con cui esorta chi fa informazione a dare le notizie sforzandosi di sottolineare il Bene. Un modo per togliere centralità al Male che in quest’epoca e in luoghi confusi come l’Italia, ha troppo spesso il monopolio della cronaca quotidiana. Ma se provo, non ci riesco. La sequenza di azioni violente di ogni tipo è disarmante. Mi chiedo se riusciamo più a vederci come ci percepiscono gli altri che, stando fuori, non restano indifferenti e certamente non smettono di giudicarci. 

Tra i temi più ricorrenti, la violenza appare incontrastata di fronte al femminicidio e ai delitti urbani collegati a furti, rapine e risse. Del femminicidio ho già scritto, qui vorrei fare una considerazione sulle aggressioni e sugli omicidi che sempre più diffondono una sensazione di insicurezza tra i cittadini. Ma siccome il fenomeno è vasto, vorrei ulteriormente precisare che la mia riflessione si pone delle domande circa il modo con cui interveniamo nei confronti della violenza esercitata dai tanti cittadini non italiani che in qualche modo, spesso in barba alla legge, circolano in Italia. 

Ogni delitto va considerato caso per caso, raccordato al contesto in cui accade e alla luce delle indagini che vengono poi svolte. Ma una cosa mi lascia perplesso perché nutre infiniti quanto inconcludenti dibattiti tra forze partitiche, sempre alla ricerca di un alibi per esistere e giustificare i propri privilegi, che sul tema dell’immigrazione hanno la capacità di dire tutto e il contrario di tutto. Chi blatera di tolleranza nasconde interessi elettorali, chi minaccia intolleranza, blandisce l’opinione pubblica in vista delle elezioni. Il gioco è sempre uguale. Non esclusi i giudici che ormai sono tropo spesso sedotti dalla politica e perdono l’equilibrio quando si tratta di discutere dei limiti alla libertà personale circa i diritti elettorali attivi e passivi. Una posizione come quella di giudice, con un potere così ampio a garanzia dei vincoli degli altri poteri, non può disconoscere che a sua volta debba porre dei paletti alla libertà individuale, di fronte agli obblighi del ruolo sociale assunto. 

Il punto è che la gran parte dei delitti ad opera di cittadini albanesi come rumeni, si connotano oggettivamente di un grado di violenza per noi inaudito. Una violenza tanto eccessiva quanto inutile. Che non è però sufficiente a provocare conseguenze – quelle rare volte che riusciamo a prendere i colpevoli – differenti da altre forme di delitto simili negli esiti. Voglio dire che un conto è rapinare un tabaccaio e nella colluttazione far partire un colpo mortale, un altro è effettuare una rapina e massacrare a bastonate il malcapitato, come nel caso dell’elettricista preso a colpi di piede di porco in testa in provincia di Brescia a gennaio di quest’anno. Siamo in presenza, generalmente, di gente balcanica a cui, credo, il recente conflitto civile ha lasciato un grado di civiltà retrocesso a livello primitivo. Chiaramente incompatibile con le attese di civiltà di una popolazione come la nostra che, nonostante la crisi e la generale confusione del Paese, in termini di civiltà condivide un’idea nutrita da settant’anni di democrazia aperta.

Credo fermamente che nei tribunali – come già avviene nei tribunali per i minori, dove però l’obiettivo è “comprendere” la devianza giovanile – dovrebbero avere un ruolo sociologi e antropologi, così da far considerare, in fase giudicante e nel momento di estensione delle sentenze, il peso di una attitudine alla violenza che non deve giustificare gli aggressori (come avviene oggi con la pletora di avvocati e consulenti psicologi) ma rendere più incisive le misure punitive proprio nei loro confronti. E, correlativamente, rendere più garantita la posizione di chi, nel difendere se stesso, la propria famiglia e la proprietà privata, oggi viene di fatto messo sul banco degli imputati per eccesso di difesa. Una ipotesi di reato iperbolica nel suo imbecille automatismo che offre il fianco a derive populiste. Si tratta, insomma, di riequilibrare i giudizi meccanicamente fondati su regole che nella ricerca di una astratta “uguaglianza” perpetuano forme di iniquità intollerabili. Qui la difesa non è del cittadino italiano in quanto tale, ma della vittima rispetto ai carnefici le cui differenze di formazione e status culturale devono indurre provvedimenti differenziati per grado e intensità. Alla ricerca di una “equità” che sia più coerente con i principi di “giustizia” che una astratta uguaglianza ha, nei decenni, dimostrato di non essere in grado di assicurare.

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