Tra le più recenti, difficili e contrastate riforme che l’Italia ha avviato negli ultimi anni c’è quella del regime pensionistico, considerato un autentico carrozzone in un paese, come il nostro, che mostra scarsissime attitudini organizzative e gestionali, complice una storia cinquantennale troppo affollata di furberie e cialtronerie sempre tese al furto di denaro pubblico. Una delle maggiori novità introdotte per consentire risparmi di spesa pubblica, consiste nell’allungamento della vita lavorativa, con un correlato sistema di incentivi e penalizzazioni che tentano di limitare la possibilità di una scelta individuale contrastante con l’intenzione governativa di far lavorare tutti più a lungo.
A sostegno di questa direzione, è stato introdotto il criterio della “aspettativa di vita” ed un meccanismo di aggiornamento automatico che fa slittare in avanti i limiti di età pensionabile in parallelo con le statistiche elaborate dall’ISTAT proprio in ragione della durata media della vita degli italiani. Si tratta di una novità quasi esilarante se si considera il ritardo mentecatto con cui una classe politica di balordi ha fatto per vent’anni orecchie da mercante al richiamo dell’Unione europea che chiedeva che la nostra legislazione eliminasse le differenze incostituzionali tra uomini e donne dato che a queste ultime veniva e viene tutt’ora consentito di uscire prima dal mercato del lavoro. L’Italia si è sottratta alle procedure di infrazione approvando una legge che allineerà maschi e femmine soltanto nel 2026!
La stessa classe politica, ancora balorda e inetta, ha sotterrato volutamente la contraddizione che trascina da vent’anni proprio approvando una forma di uguaglianza che è solo apparente. Proprio l’ISTAT, infatti, con le sue tabelle ufficiali, rivela che rispetto a ciò che chiamiamo “aspettativa di vita” esistono differenze molto significative che il governo ha lasciato sepolte per tradizionale incapacità politica, intendendo la politica quella vera che un paese moderno dovrebbe potere avere alla guida di se stesso.
Vediamo un po’ cosa dice l’ISTAT:
“La speranza di vita alla nascita in Italia era nel 2011 di 79,4 anni per gli uomini e 84,5 per le donne, in crescita rispetto ai dati del 2005, 78,1 e 83,7 rispettivamente. Sempre nel 2011 la speranza di vita a 65 anni, ovvero il numero di anni che in media una persona che ha attualmente 65 anni ha ancora da vivere, è di 18,4 per gli uomini e 21,9 per le donne. Da notare che per entrambi gli indicatori non vi sono significative differenze tra Nord, Centro e Sud.”
Cosa significa? Significa che al di là di qualche aspetto puramente retorico e fornito di secondi fini elettoralistici, l’Italia non ha ancora capito cosa voglia dire avere una classe dirigente competente e capace di offrire vere pari opportunità. Proprio nell’ottica di una politica delle pari opportunità, che il nostro paese gestisce ancora con il falso spirito di una “cavalleria” cafona e ignorante (basterà pensare alla diffusione di una cultura della violenza contro le donne), un governo fatto di persone dotate di intelligenza normale, buon senso comune e semplice onestà intellettuale, dovrebbe diversificare l’età pensionabile lasciando agli uomini limiti pensionabili inferiori a quelli delle donne.
Ci sono esattamente sei anni di differenza nelle rispettive aspettative di vita che solo per cialtroneria possono essere ignorate nella definizione dei criteri di pensionamento. Mi pare sufficiente per l’avvio di una class action di tutti i lavoratori uomini nei riguardi dello Stato, e lo sostengo senza nulla togliere a ciò che deve ancora essere fatto per garantire alle donne il superamento di un GAP sociale che in alcune situazioni le vede ancora penalizzate. Ma il punto è un altro, per evitare tanti degli errori che furono del femminismo, è necessario che la politica delle pari opportunità non sia più vissuta come rivendicazione femminile ma come sana, equilibrata, neutra politica di indirizzo sociale con cui uno Stato democratico moderno deve sapere gestire il complesso dei diritti e dei doveri dei cittadini senza differenze di genere e di alcun genere.