Da Dirigente scolastico mi capita spesso di lamentarmi insieme ai colleghi del poco credito che ci viene riconosciuto in società, nonostante il nostro duro e malpagato lavoro. Non se la passano meglio altre categorie, i politici anzitutto ma anche i giornalisti, compresi quelli che semel in anno… si occupano di scuola. Ve ne sono alcuni, per esempio, che invece di compiere uno sforzo di documentazione, come richiederebbe il lavoro di chi informa i lettori, scelgono la strada facile facile del pettegolezzo. Si prende una notiziola, la si usa come exemplum e si trascina una categoria di migliaia di persone nel baratro del pubblico ludibrio. Giornalmente assistiamo a situazioni in cui l’incapacità di leggere nel contesto i fatti di cui si discute – o, peggio, la disonestà finalizzata a perseguire interessi sotterranei – creano casi giornalistici sfarzosamente incardinati su un vuoto, che generalmente è un vuoto di pensiero del giornalista di turno. Di solito la risposta rassegnata è che i giornalisti farebbero qualunque cosa pur di vendere qualche copia. Si sa, infatti, che in Italia i giornali sono in crisi da tempo, non si vendono, non si leggono. E la colpa, secondo tanti di loro, sarebbe sempre della scuola che non fa bene il suo lavoro o del Governo che non sostiene abbastanza l’editoria (espressione che però da intendersi come sinonimo di: finanziamento).
Se i giornali non si vendono, credo che prima di tutti dovrebbero essere i giornalisti a chiedersi come mai. Il linguaggio giornalistico è per antonomasia svelto, agile, leggero, pieno di licenze. Forse troppe? Come la cattiva abitudine di cavalcare ogni idiotismo generato da una società confusa e disimpegnata. Vedi l’eco mediatica conferita a obbrobri linguistici come “sindaca”. Così che a noi lavoratori delle scuole resta un compito più difficile: fare studiare una lingua che non trova riscontro sui giornali, è forse anche per questo che nessuno li legge più. In vicende come queste occorrerebbe la capacità di esercitare un senso critico, quello che manca a chi taccia come “sessisti” i termini più comuni, per cui dire “sindaco” – che è termine istituzionale che allude ad un ruolo ed è dunque privo di genere – ad una donna sarebbe mancanza di rispetto. Simili cianfrusaglie verbose e senza sostanza sono specchio di una dilagante ignoranza che ha ormai eroso ampi spazi anche all’intelligenza disponibile sul territorio nazionale. Ma tanto poi la colpa è sempre delle scuole. Il problema è che tutto ciò accade così spesso che viene voglia di gridare: “Uno alla volta, uno alla volta, per carità!” facendo tesoro delle amare riflessioni contenuto nella più rappresentative delle opere di Gioacchino Rossini.
Ma siccome, restando nel tema musicale, sono “Pronto prontissimo son come il fulmine” eccomi a commentare un recente fatto quotidiano… Accade che un impiegato addetto alla scrittura di parole su un foglio di un importante quotidiano nazionale, che stampa mediamente 80.000 copie nonostante ne venda appena la metà, usi una bizzarra iniziativa di una Dirigente scolastica che organizza una rievocazione del clima culturale del Ventennio fascista, per screditare in toto una categoria i cui componenti hanno quanto meno dovuto superare selezioni certamente più difficoltose di quelle riservate all’assunzione di collaboratori di quotidiano addetti a scrivere parole sui fogli. Fin qui, comunque, si resterebbe nello spazio legittimo del “dire ciò che si è capaci di dire”, in base a quelli che noi della scuola chiamiamo pre-requisiti e competenze. Che non è detto debbano essere eccelsi per chiunque, potendo ben darsi, come dimostrato dal citato impiegato addetto a scrivere parole su un foglio, che taluno diventi adulto e trovi lavoro anche con minime capacità, competenze e pre requisiti, persino per scrivere, leggere e far di conto.
Spiace, invece, rilevare una maligna abitudine a manipolare i contenuti che si dichiarano offerti per dare informazione. E questo non è più entro il campo delle azioni legittime. Anche le notiziole sciocchine dei giornali senza pretese culturali, possono prestarsi a far passare messaggi tesi a perseguire altri interessi. Ovviamente opachi. Come nel caso in questione che spiega le stravaganze citate e la loro inventata diffusione richiamando una leggerezza del Governo che incautamente avrebbe concesso “autonomia” alle scuole. Irridendo così ad un punto fondamentale dell’art. 117 (certamente sconosciuto all’impiegato addetto a scrivere parole), della Costituzione italiana che ne fa invece un perno dell’architettura istituzionale.
A me pare di tutta evidenza che è legittimo (seppure discutibile per opinione personale) organizzare una commemorazione che probabilmente ha finalità di approfondimento culturale con modalità svecchiate rispetto alla lettura di un testo scolastico (e sorvolo sulla liceità di certi testi noti per censurare a piacimento la storia d’Italia). Non mi pare legittimo adoperare una vicenda qualunque per far volare quel venticello leggero della calunnia che, Paisiello prima e Rossini dopo, cantavano in rima ma per tirare i piedi a tutti i calunniatori, persino quelli addetti alla scrittura di parole su un foglio. Così, propongo ai miei lettori le belle parole che i due bravi musicisti adoperarono per musicare i rispettivi Barbieri di Siviglia, emblema di una colta leggerezza che tristemente deve dirsi “d’altri tempi”.
La calunnia è un venticello,
un’auretta assai gentile che insensibile, sottile, leggermente, dolcemente incomincia a sussurrar. Piano piano, terra terra, sottovoce, sibilando, va scorrendo, va ronzando; nelle orecchie della gente s’introduce destramente e le teste ed i cervelli fa stordire e fa gonfiar. Dalla bocca fuori uscendo lo schiamazzo va crescendo prende forza a poco a poco, vola già di loco in loco; sembra il tuono, la tempesta che nel sen della foresta va fischiando, brontolando e ti fa d’orror gelar. Alla fin trabocca e scoppia, si propaga, si raddoppia e produce un’esplosione come un colpo di cannone, un tremuoto, un temporale, un tumulto generale, che fa l’aria rimbombar. E il meschino calunniato, avvilito, calpestato, sotto il pubblico flagello per gran sorte ha crepar.
Gioacchino Rossini, 1816 |
La calunnia, mio signore,
non sapete che cos’è? Sol con questa a tutte l’ore si può far gran cose, affé. Questa qui, radendo il suolo, incomincia piano piano; e del volgo il vasto stuolo la raccoglie, e rinforzando passa poi di bocca in bocca, ed il diavolo all’orecchie ve la porta, e così è. La calunnia intanto cresce, s’alza, fischia, gonfia a vista: vola in aria, e turbigliona, lampeggiando stride e tuona; e diviene poi crescendo un tumulto universale, come un coro generale, e rimedio più non v’è.
Giovanni Paisiello, 1782 |