Cosa ci Insegna la morte

L’episodio di Vasto dovrebbe far riflettere. Un giovane, Di Lello, perde la moglie per colpa di un pirata della strada, D’Elisa. Il dolore lo acceca. Non si accorge che si tratta di un altro ragazzo che, pur colpevole di una leggerezza fatale, si sente condannato ad una vita di rimorsi. Tutto intorno tace. La Legge fa il suo corso, chi lo trova lento, chi lo trova efficiente. Gli amici, dell’uno e dell’altro, alzano barriere di odio e indifferenza, amplificando il dolore inconsolabile di Di Lello, rendendo impossibile la conversione di D’Elisa. I due unici veri protagonisti, infatti, non si parlano. Si fronteggiano piuttosto. E la baldanza dell’uno, rinfocolata dal dolore che si trasforma in rabbia, diventa irruenza omicida, sfogo incontrollabile e colpa, anch’essa eterna come la scomparsa della prima vittima di questa tragedia, Roberta Smargiassi, moglie di Di Lello e vittima di D’Elisa. Il cerchio si chiude, ora D’Elisa è a sua volta vittima di Di Lello, rimasto unico sopravvissuto ma anche unico sofferente costretto a espiare per sempre il frutto di una solitudine di cui siamo colpevoli un po’ tutti.

Perché ciò che questa vicenda di morte circolare ci insegna è che non si dovrebbero lasciare soli quei disgraziati a cui la sfortuna o il caso fa bere un amaro calice. Invece di litigare sui tempi della Legge – se sia stata efficiente e rapida o talmente lenta da esasperare il bisogno di Giustizia di Di Lello – lo Stato dovrebbe “comprendere” ciò che accade sul suo territorio. E organizzarsi di conseguenza. Sarebbe per esempio stato utile a tutti se D’Elisa, chiaramente colpevole di una leggerezza, che tuttavia sarebbe potuta accadere a chiunque, fosse stato allontanato dal luogo di residenza abituale, sarebbe stato utile capire che c’era bisogno di una procedura di raffreddamento che impedisse a Di Lello di osservare ogni giorno la “libertà di vivere” di colui che aveva tolto la vita a sua moglie e la libertà a lui stesso, ormai prigioniero di un furore omicida prima latente e poi esploso improvvisamente. Colpevole o no, D’Elisa, e con lui tutti coloro che a vario titolo si rendono autori di crimini di strada, pur riconoscendo che si è trattato di una tragica fatalità, non poteva continuare la sua vita come prima. Al di là di quei benefici di legge che sospendono la prima condanna, D’Elisa doveva essere sottoposto a un provvedimento che, per esempio, per cinque anni lo costringesse a vivere da ausiliario in un altro luogo per prestare servizio di volontariato in favore di vittime della strada rimaste paraplegiche, oppure in altre realtà con simili finalità. Il colpevole avrebbe “pagato” subito un debito contratto con la società, lo Stato avrebbe dimostrato che esiste anche fuori dal tribunale, la morte della vittima avrebbe ricevuto un senso perché avrebbe prodotto del bene sociale e il marito della vittima avrebbe avuto tempo per metabolizzare il dolore e convogliarlo egli pure in opere di bene piuttosto che in una cieca rabbia.

La domanda però è: possibile che nessuno pensi qualcosa di simile? Dopo decenni di “cosificazione” delle persone per farne consumatori, quasi nessuno è più capace di elaborare il dolore, cosa che invece sapevano fare i primitivi e ancora sanno fare i popoli africani che, da ignoranti, definiamo arretrati. Allora è lo Stato che deve approntare rimedi, rimedi noti come le semplici procedure di raffreddamento. In attesa di un verdetto che rispetti i vincoli posti dalla Legge, cosa impedisce che, quantomeno, l’autore di un crimine di strada venga obbligato a risiedere lontano dal luogo in cui vivono i parenti della vittima del suo imperdonabile errore? Cosa impedisce che sia subito costretto a prestare servizio in una realtà dove c’è bisogno di aiuto umano e disinteressato?

La morte, insomma, non ci insegna nulla?

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