Io sono mio figlio

Credo che la felicità sia sopravvalutata. Mi spiego. La ricerca della felicità è sacrosanta, ognuno deve tentare la propria strada per inseguirla, raggiungere, il più possibile. La sopravvalutazione di cui parlo è nella stima che ciascuno conferisce alla felicità stessa. Si eredita in generale un’idea smodata di felicità, nel senso che la si ritiene una condizione di estasi, sublime al punto da cancellare ogni dolore, ogni stanchezza, ogni amarezza. Non ci credo. La felicità mi pare altro che questo ingombro che la cultura deposita nel nostro inconscio.

La risposta più frequentemente associata ad una domanda su cosa sia o rappresenti la felicità per ciascuno di noi, è quella che racconta di una grande gioia, perenne, immensa, così pregna da non lasciare spazio ad altro. Una specie di punto di arrivo, di vetta, di sommità, un apice dei sensi in cui anche la mente appare appagata. In altri termini: una stasi, gonfia quanto si vuole, ma una stasi. E non ci credo.

Perciò mi convince l’idea che la felicità consista nella ricerca, nel percorso che si compie per raggiungerla, o, meglio, per tentare di raggiungerla. Ma qui qualcosa non quadra. Perché sposando questa prospettiva la felicità è un non essere, qualcosa che sarebbe della stessa natura dello strumento che compie la ricerca, come se gli astri e il telescopio fossero della stessa sostanza. Certo per avvertire quell’ebbrezza che il cielo notturno, in condizioni di buio adeguate, può donare è chiaro che occorre disporre di un telescopio potente, ma la sostanza di quella gioia tutta speciale che da ragazzo mi faceva passare talvolta le notti sulla terrazza di un amico che possedeva un telescopio, continuo a credere che sia nel fascino che le stelle, con la loro luminosità distante ma intensa, esercitavano ed esercitano su di me come su tanti individui. Felicità e sforzo devono pur differire in qualcosa. Mi pare. 

Della felicità si è detto e si è scritto tantissimo. Grandemente per farne elemento dimostrativo dell’esistenza di una legge morale, di una realtà superiore oppure per fondare la categoria delle virtù e contrapporla a quella dei vizi, per supportare le leggi dell’uomo e la difesa di quegli strumenti che ogni società elabora per assicurare la propria esistenza e scongiurare le spinte devianti. Insomma, una felicità sovrumana in tutti i casi, quindi ancora più distante, sfuggente, inafferrabile. Aspetto che in quest’epoca liquida, paradossalmente dilaniata tra le sue complicazioni e l’incapacità raggiunta di cogliere la complessità, avvertiamo ormai desueto, privo di fascino, addirittura repulsivo. 

E come spiegare la felicità leggera di chi vive con poco in luoghi lontani dai conflitti delle armi e dei soldi? come spiegare la felicità funesta di chi, nella parte ricca del mondo, ha ordito trame e oltrepassato ogni limite pur di raggiungere un obiettivo? Si parla di serenità e di soddisfazione, di appagamento, di gioia e benessere, tutte forme che declinano il concetto di felicità come sinonimo di piacere.

La cosa che ho imparato della felicità, l’ho compresa osservando le persone, quelle felici e quelle infelici, e le tantissime che non possono dirsi felici e non potrebbero dirsi infelici. Credo che la felicità sia un concetto precario, temporaneo che si sostanzia esattamente di ciò che siamo capaci di fare per essere felici. Non di ciò che, quando ci ragioniamo, riteniamo essere necessario o utile per raggiungere uno stato di felicità. In questo senso solitamente noi sopravvalutiamo la felicità, la descriviamo come un apice più alto e al di là di dove siamo capaci di arrivare . Questo copre lo scarto inconfessabile tra ciò che siamo e l’idea che abbiamo di ciò che siamo, generalmente più aderente all’idea di ciò che desideriamo essere, di come vogliamo e/o pensiamo che gli altri ci vedano. Voglio dire che la felicità, molto spesso, diventa un alibi per non essere felici, semplicemente perché invece di relazionarci con essa, capovolgendo il giusto, assumiamo una prospettiva che parte dalla felicità oggettivamente intesa e da quella misuriamo la nostra distanza soggettiva. La felicità diventa senso di colpa, persino  ingiuria quando la fissiamo in un altrove irraggiungibile. Lo si comprende dal raffronto delle diverse visioni di felicità, da persona a persona. Qualcuno, per esempio, potrebbe stupirsi della nostra incapacità di compiere un passo ulteriore, immaginando che proprio con quel passo si raggiunga la felicità, mentre noi avvertiamo dentro noi stessi che la felicità è già nel posto che occupiamo. Non un passo di più. Altri potrebbero stupirsi della felicità che associamo ad una condizione che appare insufficiente ad uno sguardo alieno. Qualcuno sospinge ad una ricerca più serrata, intensa, organizzata, ma si lascia sfuggire che vi è una sola strada per la felicità: la propria. Perché anche la felicità non può essere condivisa, essa è uno stato individuale, un modo di sentire che si sostanzia con il suo portatore. Sebbene, la felicità dei singoli si espanda come forza benefica che induce tolleranza e gioia di vivere, rispetto dell’altro e fiducia nel futuro.  I meno adatti alla felicità, dunque, sono quelli che soffrono di rimpianti, perché non guardano a ciò che sono e sono stati, a ciò che hanno e hanno avuto, ma ai vuoti di cui soffrono perdutamente. Oppure gli indecisi, che di continuo oscillano tra vette di felicità così diverse tra loro che non trovano mai pace. O gli ingenui, che non hanno un’idea propria e si affaticano dietro e sotto le regole della cultura che li produce, sempre pronti a catalogare, a giudicare, a soffrire.

La felicità è per tutti costoro un ingombro del cuore e della mente, una presenza che incupisce e non risveglia.

Ripenso al telescopio e al cielo stellato. Ora vedo meglio. Ripenso a me che sono il telescopio della mia vita. Ed io che ancora vivo, ancora sono in cammino alla ricerca della mia felicità, non di tutta, ché dosi ne ho avute ed altre ne avrò e tutta non è mai data. Io che inevitabilmente divento strumento della ricerca e nell’unità di me e del mio esistere alla ricerca di qualcosa, contengo già in potenza la felicità che talvolta avverto e altre volte avvertirò, come condizione precaria e transeunte, altalenante come le onde del mare (ti auguro un mare di felicità…), dopo avere considerato l’analisi psicologica, la riflessione filosofica, la concezione religiosa, torno indietro al dato biologico che forse riunisce emblematicamente la meta e lo strumento della felicità. Trovo quella forma di piacere che è l’amore e che produce un frutto. E mi pare che la più sincera metafora della felicità sia questa divina invenzione della procreazione, sintesi di piacere che si condensa nella ricerca e nello strumento della ricerca (io, lei, noi) e sfocia nel frutto come anticipazione dell’al di là, inteso come forma mondana dell’oltre me, testimonianza temporanea del mio io tra l’esserci e il non esserci più, a sua volta soggetto al medesimo ritmo esistenziale. Come accade a chi molto si sia speso per un obiettivo e infine lo abbia raggiunto. Come accade a chi galleggi sereno sul suo sorriso, semplicemente grato alla vita. E non dico nel senso che chi cerchi un figlio trovi la felicità, al contrario. In questo cammino che è la vita, in questa ricerca della felicità, quella di cui ciascuno di noi è capace, come chiunque è capace di cercare un figlio, scopro infine che io sono mio figlio. Ecco perché la felicità non è mai tutta data. A nessuno di noi individualmente considerati. Perché dalla somma dei nostri momenti, si costruisce la felicità dell’Uomo.

 

 

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