Una chiave di lettura

Pensate a un semplice disagio o a un problema tipico del nostro tempo e del nostro paese. E cercate altri esempi, fintanto che non saranno molti. Chiedetevi cosa possono avere in comune l’abitudine del parcheggio in doppia o terza fila e la situazione dei precari della scuola, il modo di agire dei “mostri” del grande fratello e l’immondizia che ristagna nelle nostre città. Il fatto è che in tutti questi casi a regolare (in senso tecnico e ironico…) lo scandaloso scarto che esiste tra come dovrebbero essere le cose e come in realtà sono, agisce lo scollamento ormai totale – e temo irreversibile – tra l’individuo e il contesto.

Questa chiave di lettura del disordine contemporaneo che paralizza il nostro Paese è tanto più paradossale quanto più si concorda con la vecchia idea dell’uomo come animale sociale. I sociologi dovrebbero perciò aggiornare (e qui potrebbe l’antropologia prendersi la sua meritata rivincita) il loro armamentario interpretativo per ricomprendere sotto altra veste l’immagine dell’uomo uscita pur sempre da quella autentica rivoluzione che fu l’Illuminismo corroborato poi dal Positivismo e più recentemente dallo Scientismo. Intorno all’io non è rimasto quasi più niente. Frammenti di comunità si rintracciano in luoghi come la famiglia ma basta ricordare le statistiche sulla frequenza della violenza entro le mura domestiche per rabbrividire, specie se si considera la fraudolenta incapacità di tutto l’arco parlamentare nel predisporre strumenti di non virtuale sostegno alla famiglia. Non è un caso che la Chiesa stia recuperando recentemente un po’ del terreno perduto per effetto di un edonismo senza pedigree che ha solo alimentato false speranze, vizi funesti e guadagni irritanti per combriccole di furfanti. Qualcuno è tornato alla spiritualità come rifugio e se saprà proseguire con un impegno vero scoprirà che non di rifugio si tratta bensì di liberazione consapevole dal bisogno che rende prigionieri.
La perdita di valore del contesto ha effetti devastanti. L’auto in seconda fila, talvolta a breve distanza da un posto libero; incrociare le braccia davanti a un’esigenza rivendicando l’assenza nel mansionario di quella specifica circostanza; la diffusa abitudine al mancato rispetto delle regole e il suo conseguente orgoglio cafone; la fama di ladri e furbetti che ci accompagna all’estero; la menzogna del luogo comune che ci fa mascherare da “italiani” come lo erano i nostri nonni tra gli ultimi (ché la generazione dei padri, di noi tra i 40 e i 50, di colpe ne ha un’infinità) sono tutti sintomi di un medesimo silenzio della coscienza, della ragione, del cuore persino.
Da educatore ho fatto scelte di verità, privilegiando le periferie più scomode e dimenticate più di quelle, come lo ZEN di Palermo, che aiutano a farsi una carriera politica. Ho lavorato in silenzio e sotto il peso dell’indignazione di tutti coloro che tacciono l’interesse privato mimetizzandolo di falso legalismo, aiutati da mangrovie di leggi, regolamenti e contratti sindacali che nascono da rapporti di forza vinti e perduti e non da visioni comuni mirate al bene della collettività. Con me ho però trovato i giovani che seppure lentamente hanno infine recepito che nel mondo assente e sordo per loro c’era qualcuno disposto a dargli spazio, a dargli ascolto, a dargli tempo. Lo strumento adoperato è stato il senso del bello, ovvero la sua riproposta in un mondo diventato brutto, sporco e maleodorante. Un percorso lento e faticoso, sempre sotto il rischio di essere travolto dall’indolenza, dal disfattismo, dalla viltà, dall’abitudine, dal disimpegno, dall’ebetismo.

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