Sicilia contraddizione

– Scusi, può scattarmi una foto? 
– What?
– May you take a photo?
– Oh, yes.
– Thank you.
– You’re welcome.
– Ok, cheese…
Clic.
– Thank you.
– Oh, it was a pleasure.
– And you’re very polite:
– Where are you from?
– From Italy, Sicily.
– Ah, Sicily mafia.
– Eh?!
– Sicily – ridendo – mafia.
– Vaffanculo lo capisci?
– What?
– Where are you from?
– Japan.
– And no mafia in Japan? Faccia di culo!
– No, Japan no mafia.
– Allora sei scemo? O ci fai?…
– What?
Ride di meno adesso il bastardo e mostra gli incisivi gialli come la faccia che non so se sia così gialla di suo o per via di una orripilante T-shirt giallo elettrico che ricade abbondante su uno short a scacchi bianco azzurri con venature verde pistacchio e marrone castagna. Da sotto gli spuntano due gambette esili come cerini il cui capo è segnato da scarpe da ginnastica rosse come la Ferrari.
Sono a Parigi, davanti al Moulin Rouge, appena emerso dalla fermata della metro che esce ad Anvers, così che risalendo dalla buca sotterranea ti trovi le pale rosse del più noto locale parigino proprio davanti agli occhi. Sono così contento di essere finalmente giunto nella città in cui da ragazzo sognavo un futuro da giornalista corrispondente dall’estero che questa proprio non ci voleva. Intanto è sempre la stessa storia, ovunque vada, fuori dall’Isola. Mai che qualcuno dica: Sicilia – mare o Sicilia – sole, Sicilia – Pirandello, Sicilia – Federico II, Sicilia – Sciascia, mi andrebbe bene persino Sicilia – Schillaci. No. Ovunque è la stessa storia: Sicilia – mafia.
Dunque, io non esisto. Io, cioè noi persone normali, noi rispettosi della legge, delle regole, noi che abbiamo studiato col sacrificio di genitori semplici impiegati e casalinghe, noi che abbiamo fatto il militare, che siamo riusciti a vincere un concorso in un Paese come l’Italia così pieno di vizi sempre auto-assolti, noi che paghiamo le tasse, che non possiamo andare in pensione perché man mano che avanziamo con l’età ci spostano il limite sempre un po’ più avanti, noi che ci siamo trovati un Paese razziato dai furbi, noi che non abbiamo avuto un cognome da spendere, che non siamo stati tutelati da un potente o prepotente disposto a elemosinarci protezione, noi che eravamo giovani quando ancora si privilegiava gli anziani e che da anziani ora dobbiamo lasciare passare i giovani, noi che abbiamo sempre votato pensando prima al dovere del voto e poi al diritto, noi che abbiamo donato tempo ed energie al lavoro per via di un’etica ma che abbiamo visto premiare gi stolti, gli incompetenti, i furbi, i prepotenti, gli scansafatiche, i delinquenti, i falsi invalidi, i falsi poveri, i falsi stranieri, i falsi lavoratori, i falsi sindacalisti, i falsi politici, i falsi giudici, noi che siamo stati perseguitati per un divieto di sosta o per il canone rai mentre governi e governatori sguazzavano tra puttane e sputtanamenti, noi che consumiamo cultura come auspicano gli ignoranti, noi che paghiamo tutto senza avere gratuità, noi che spendiamo con sacrificio 15 o 50 euro per il cinema o il teatro togliendoli da uno stipendio di 1.200 mentre chi ne preleva 120.000 dalle risorse pubbliche gode di gratuità in ogni dove, per vedere, sentire, viaggiare, mangiare, far toilette, spedire e persino fare l’amore, come lo chiameremmo noi e come non potranno mai chiamarlo loro.
È un istante. Guardo il suo sorriso smorzato. Sta ancora appeso alla sua domanda.
– What?
Così gli sorrido anch’io.
– You’re right! Gli dico e lui restituisce. Ha begli occhi questo giapponese tascio.
– Vaffanculo alla Sicilia! gli urlo mentre si allontana.
– Sicilia? Eh, Sicilia a-rri-ve-de-rci, mi dice sillabando con un accento da registratore.
– Have you never been in Sicily? gli grido incuriosito.
– Oh, yes. Si-ci-lia-be-dda.
Come può essere? Cosa diavolo ci troveranno questi stranieri che giungono da noi e già in aereo un applauso all’atterraggio segnala l’arrivo in un’altra dimensione? Come possono serbare un bel ricordo di un luogo dedito all’inazione? Tanto che padre e figlio, a distanza di vent’anni, provenendo da un qualunque angolo del mondo, possono fare viaggi distinti e separati ma trovare entrambi, uno dopo l’altro, a Palermo gli stessi lavori in corso? Cosa li può spingere a pensare con gioia alla sola isola al mondo che si è dedicata con costanza e tenacia da piraña a sbranare le proprie coste, insozzare il suo mare di putridi catrami, a sventrare il suo territorio per sconquassarlo di abusi edilizi, ricoprirlo di spaventose porcherie di cemento armato, disseminarlo di pezzenti tuguri incompleti e sporchi sul lato pubblico mentre all’interno vi si nascondono fregi aurei seppure spesso volgari ed osceni senza rimedio? Cosa può indurre uno straniero a volgersi con gioia al ricordo di una terra dove il tempo è un’opinione insindacabile e personale del privato cittadino che tuttavia campa con denaro pubblico per garantire un servizio collettivo? Una terra dove lo spazio comune non è pensato, né progettato, né preservato ma è il labirinto mortale e maleodorante che residua alla bestiale conquista che privilegia, sana e tutela l’abuso? Che delirio è mai questo che permette a un turista di passaggio in Sicilia di obliare il cancro mafioso che ci umilia, ci rende perversi, vigliacchi, falsi, canaglie, fantocci, bastardi, corrotti, pusillanimi, ma gli permette di imprimere nella sua mente l’Isola che non c’è? o che non c’è più? Dove volge il loro sguardo quando penetrano il mare nostrum circondati da assorbenti seta ali e plastiche di ogni forma e colore? Cosa penetra le loro narici quando fanno la fila per i nostri monumenti storici in compagnia di cumuli deformi di immondizie imperiture come i marmi secolari? Cosa reca gaudio alle loro orecchie girando tra le nostre strade mentre le tivù di ogni casa vomitano a tutto volume il loro pattume di culi e bisticci? Cosa li affascina di genti aduse al vanto sotterraneo dell’ascendenza mafiosa e all’oblio della progenie valorosa?
– You’re right! Again. Gli dico con ritrovata gioia nel cuore mentre lui mi inquadra entro il foro degli indici e dei pollici uniti a mimare un teleobiettivo.
Mi metto in posa per stare al gioco, mi sento arrabbiato e contento, mi avverto imbalsamato dal potere delle contraddizioni che urtano e bloccano, che urlano e tacciono, che amano e odiano. Forse un giorno, dopo la mafia, oltre le cose belle e dimenticate, oltre il non fatto, il non detto, il non pensato, il non agito, magari a dispetto delle voci come delle ipocrisie, forse un giorno incontrerò un altro giapponese, un altro turista.
– Where are you from?
– Sicily.
E sillabando con accento da straniero mi risponderà:
– Si-ci-lia-con-tra-ddi-zio-ne.
(marzo 2010)

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