Siamo tutti deficienti

La sentenza di condanna della docente Giusi Valido, che aveva fatto scrivere cento volte “sono deficiente” ad un suo alunno bullo, desta legittime perplessità al di là delle spiegazioni formalmente ineccepibili del giudice. Le posizioni dei sostenitori di una o l’altra delle due posizioni possibili in questa vicenda devono infatti ricordare che se la Legge tende ad essere “esatta” altrettanto è difficile dirsi per l’educazione. Questa è un processo che deve di continuo riformulare persino i propri presupposti in ragione del mutare del panorama culturale come del clima sociale e tenere conto di una molteplicità di valori ed esigenze che di frequente confliggono tra loro. L’educatore, dunque, è sostanzialmente costretto a essere anche un mediatore. Aspetto da cui il giudice estensore della sentenza può prescindere. Si tratta di una differenza importante.

Sostanzialmente da parte della Legge si dice: far scrivere cento volte “sono deficiente” a un ragazzino che – è prova provata – ha fatto il bullo con un altro ragazzino (colpevole di non essere violento o di essere più indifeso), significa umiliarlo ingiustamente, immotivatamente, sproporzionatamente, illegalmente.
Dal punto di vista dell’educatore si sostiene: il danno alla vittima è già stato fatto; le parole in forma di rimprovero o di ramanzina attraversano le orecchie del bullo come acqua corrente sotto i ponti, dunque l’esercizio materiale di scrivere e visualizzare ciò che la coscienza personale si rifiuta di focalizzare è un metodo concreto per cercare di sollecitare un cambiamento.
Tra i due punti di vista c’è quella forma di dialogo e confronto che chiamiamo processo che scaturisce, obtorto collo, il parere vincolante del giudice.
Veniamo dunque alle conseguenze. Il lavoro di analisi, certamente approfondita, che il giudice avrà svolto prime di emettere la sua sentenza aggiungerà acqua corrente sotto il ponte dell’indifferenza collettiva e soprattutto sfuggirà del tutto al vacillante senso critico che la società globalizzata ha ormai perso come un dettaglio inutile. Il solo a ricavare grande e muscoloso vanto da questa vicenda sarà l’immaginario collettivo, patologica deformazione dell’antica comunità civile che si nutre oggi di gossip, superficialità, apparenza e fretta. Nell’immaginario collettivo, che determina la pubblica opinione, si insedierà con forza di legge la sensazione che il bullo a scuola può fare come gli aggrada, tanto il docente gli fa un baffo. Si ricorderanno certamente gli episodi che in passato hanno visto docenti aggrediti, umiliati con lo sputo, le offese e le percosse ma non ricordo che i giudici fossero preoccupati dell’umiliazione subita dalla vittima per quanto abbiano poi comminato ammende e condanne nei limiti di ciò che la legge permette nei riguardi dei minori o dei giovanissimi o degli incensurati. Non se la prenderà il giudice se, con la nostra lunga esperienza di scuola, facciamo previsioni che ci paiono più probabili delle sue. E se è vero che ci sono insegnanti che non si trovano mai nella situazione della professoressa Valido, è pur vero che ciò che è accaduto a lei può accadere ancora a tantissimi docenti ai quali, onestamente, non si potranno rimproverare difetti di preparazione o professionalità. Qui, in discussione, c’è una differente valutazione culturale e psicologica di uno strumento pedagogico.
Quello che mi sento di dire in questa situazione ha a che fare con lo stato in cui versa il Paese che oggi accusa i nodi al pettine formatisi nel corso di quarant’anni di storia recente, quelli in cui i nostri difetti hanno preso il sopravvento e quelli in cui si è persa la capacità di progettare, programmare, prevedere lo sviluppo della nostra società e del suo futuro. Anche i giudici, come politici e sindacalisti, appartengono a una casta. Non si tratta di una colpa derivante da pregiudizio. Di reati e prepotenze rispondono i singoli per le loro azioni e non perché appartengono a una categoria. Il fatto è che le caste sono ormai un dato oggettivo e sociologico del nostro Paese. Non adoperiamo simboli alla maniera degli indiani ma è un dato di fatto che le condizioni di vita di queste tre grandi categorie di cittadini che vivono di pubbliche risorse sono certamente differenti da quelle del resto della popolazione. Vantaggi economici, posizione sociale, privilegi di casta, legislazione specifica, condizioni di vita e di lavoro particolari li rendono avulsi dalla società entro cui sono tuttavia chiamati a operare, attori anche loro del processo di convivenza che tutti noi mettiamo in circolo. La perduta credibilità di tutte e tre le caste italiane è conseguenza diretta dello scollamento, talvolta forte e talaltra immenso, esistente tra loro e tutti noi. Le ragioni che essi additano come legittime, ovvie, necessarie, restano sempre un po’ al di là del metro di valore che la gente comune utilizza nel Paese reale, quello che resta fuori dai circoli privati, dalle cene di gala, dai ricevimenti fastosi, dagli inviti di palazzo, dalle corsie preferenziali, dalle opportunità riservate, dai colloqui confidenziali, dalle legislazioni ad hoc, dagli interventi straordinari. Così che ogni discorso intorno alla Giustizia accalora i cittadini come un tempo i filosofi e i teologi, laddove nel volto e nel resoconto degli attori formali della Giustizia in senso istituzionale (che tutti preferiamo chiamare “la Legge”) avvertiamo sempre quel sereno distacco, quel compassato atteggiamento di algida distanza con cui sciorinano i loro pareri. Gli è che gli effetti di ciò che dicono e sanciscono produrranno conseguenze nel Paese reale, quello che loro non abitano, quello che osservano dalle loro terrazze, lontano dagli assembramenti.
Riprendendo le due interpretazioni da cui abbiamo preso le mosse, a incrementare la distanza tra due mondi entro la nostra società civile, resteranno due opposti convincimenti:
nell’opinione del giudice Gaetano La Barbera la sentenza di condanna della professoressa Valido sarà certamente un vanto per il contributo dato alla Legge;
per chi vive nel Paese reale, la Giustizia avrà fatto un altro passo indietro.
Abbiamo però già perso l’ennesima occasione per riflettere insieme invece che gli uni contro gli altri. Così che tragicamente, quella frase “sono deficiente” può essere riferita a noi, resta anzi la sola verità oggettiva perché sottolinea la mancanza che ci accomuna tutti.

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