L’Eco della fine…

Era naturale che se ne andasse, ma è stata comunque una perdita rilevante quella di Umberto Eco. E poi sono abituato a vedere gli uomini di questo spessore varcare la soglia dei Novanta. In ottobre mi trovavo a Parigi per il compleanno dell’amico e giornalista Andras Biro, tra gli ospiti il suo compagno di infanzia e di battaglia Edgar Morin. 90 anni Andras e 94 Morin. Forse Milano non è salubre come i luoghi d’Oltralpe, chissà. Fatto sta che con la fine di Eco ho perso il solo modello italiano che mi sia sempre dato. Ho cominciato dalla tesi di laurea, usando come un breviario il suo Diario minimo, una guida più efficace di tanti docenti inadeguati al ruolo loro conferito. Mi diede un nuovo metodo al quale mi sono attenuto per sempre, dedicando gli anni da allora ad oggi ad affinare il mio stile ma sulla scia indicata da lui. A parte Umberto Eco, avendo sempre tenuto autori stranieri a modello, non sono mai riuscito a riconoscermi in nessun altro. Questione di affinità, ovviamente, nulla di più.

Per fortuna abbiamo fiori di pregio in tanti giardini della cultura e della scienza, ma a me piaceva il giardino delle scienze umane di Umberto Eco. Il giardino dove si poteva compiere le più ardite teorizzazioni simboliche e poi trascorrere il pomeriggio a sfogliare fumetti, scrivere romanzi incredibili per la solidità della struttura, la ricchezza dei contenuti, l’efficacia dello stile e poi incontrare gli studenti e riprenderli per far loro comprendere l’eleganza della lingua italiana se si è ancora capaci di ricordare quali verbi reggano il congiuntivo.
Di lui rimpiangerò, anzi, tutti saremo costretti a rimpiangere, la schiettezza nei riguardi di tutto ciò che è ovvio, diffuso, condiviso, omologato. La sua autonomia intellettuale. La sua libertà di pensatore. Devo a lui la capacità di sostenere la coerenza, la forza di far fronte all’impegno e al sacrificio, la lucidità delle scelte che non mi hanno mai sottratto al rigore dello studio. Nemmeno quando si trattava di fare “caciara”, come durante l’esperienza del militare di leva, mi sono sottratto alla curiosità e allo studio, preferendo sfruttare anche quell’occasione per imparare ed apprendere cose che altrimenti avrei ignorato. E devo a lui l’insegnamento a preferire la propria autonomia di pensiero piuttosto che l’acquiescenza o il servilismo interessato ad ottenere una cattedra piuttosto che a sviluppare un pensiero originale. Lo ha fatto fino in tempi recenti ricordando l’insidiosa fragilità dei social e suggerendo a un esercito di giornalisti ed editori che invece di sottomettersi alla prepotente invadenza del web avrebbero dovuto provare a contrastarla, magari allestendo équipe di giornalisti capaci di offrire, sulla carta stampata, un servizio di lettura critica del web stesso, un servizio capace di svelare le bufale, le inesattezze, le imprecisioni che circolano sul web amplificando questa velenosa forma di imbecillità contemporanea che porta chiunque a ritenere che ogni cosa sia uguale ad un’altra. Non so dire quanto sia irritante questa sopraggiunta incapacità di cogliere le differenze, affogata da una schiacciante ed enorme coscienza collettiva che si fa accecare da microscopiche similitudini per annullare il diritto al senso critico, spesso bollato di noia e inutilità.
Come tutti ho amato i suoi romanzi.  Ma più di ogni altro ho amato L’isola del giorno prima, a mio giudizio il vero romanzo della sua sublime carriera di studioso. Così, mi piace pensare che in realtà non sia scomparso, ma semplicemente sceso a terra così che dove si trova adesso è costantemente un giorno avanti. A noi non è permesso vederlo perché, come ci ha sempre mostrato, lui è davvero avanti a tutti noi. Oppure, più tragicamente, perso il suo faro è davvero l’Eco della fine che tutti ci travolgerà in un indistinto ciarpame di oggetti e quisquilie.

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