La scuola e la guerra

Ripeto sempre che la scuola è il laboratorio in cui una società progetta il proprio futuro. Come tale, rispecchia il volto che la società ha e intende avere. Non stupisce, dunque che la vita scolastica sia diventata un campo di battaglia in analogia allo scempio, talvolta ridicolo talaltra funesto, che si osserva nei luoghi del potere.

Alla inconcludente litigiosità dei nostri rappresentanti politico-partitici, corrisponde l’inconcludente litigiosità che rende la vita scolastica ormai quasi insopportabile. Tutti lottano contro tutti. Una colossale zuffa mette contro docenti e genitori e personale ATA e dirigenti. Quando penso tanto al Parlamento quanto alla scuola italiana, nella mente mi sorge l’immagine di una di quelle inimitabili vignette di Jacovitti, insuperabile nel rappresentare fantasmagoriche, pantagrueliche, babeliche baruffe. Fa sorridere e aiuta a tirare avanti. Resta, però, una realtà, quella della scuola, caratterizzata impropriamente da elementi e dinamiche relazionali che sarebbero tipici della guerra, la stessa che ormai saldamente si è radicata nel Parlamento e nella sua cornice di accampamenti guerriglieri quali sono diventati, dagli anni Ottanta a venire, i partiti politici e i movimenti partitici intestati con nome e cognome a singoli individui.
A combattere nella trincea della quotidianità ci sono tutti, ma per via del loro compito di più ampio respiro e per via della legislazione incoerente, sono i dirigenti scolastici i più esposti al logorio della guerra che nelle scuole trova un teatro sconfortante. Sono loro, infatti, che devono arginare le lamentele, ormai incattivite, dei genitori (quasi non v’è recriminazione che non si traduca in una denuncia contro il dirigente scolastico); devono poi far fronte alle difficoltà di gestione derivanti dai provvedimenti di economia di spesa e dalla jungla di diritti individuali da cui scaturisce un’incontrollabile massa di assenze del personale; devono ancora sapersi barcamenare tra gli ostruzionismi sotterranei di tutti coloro che rispetto alle indicazioni di lavoro, cercano un modo clandestino per non fare, non provvedere, sottrarre, rompere, impedire, bloccare… ognuno con la propria segreta motivazione.
Continuando su questa deriva, il Paese, già ampiamente sotto il giogo di una rissosità cabarettistica, non produrrà alcun cambiamento ma solo ulteriori sommovimenti senza scopo. E poiché, come già detto, la scuola riflette la società che la esprime, come non c’è più una società capace di coesione, così non c’è più una scuola capace di educare al senso di comunità che costituisce la base di ogni civiltà. Ci prova, talvolta encomiabilmente, ma che non ci riesca mi pare sotto gli occhi di tutti. La generale tendenza al garantismo individuale, il vuoto concettuale che ormai avvolge idee come il bene comune, lo spirito di comunità, l’interesse collettivo, fanno sì che tutto ciò che abbiamo costruito e faticosamente mantenuto in vita, non sia che una recita giornalmente infranta dalle ipocrisie individuali e di massa.
Si deve tristemente riconoscere che non esiste più una comunità, almeno qui da noi. Ne resta, solo talvolta, il concetto, astratto. C’è una moltitudine di individui che “confligge” per inerzia. Ci distingue il diverso grado di ferocia correlato all’intensità dell’interesse personale, privato, unico. Grazieadio, si può sempre fare qualcosa per cambiare e per recuperare ciò che si è perso. Per esempio battersi perché intanto si torni a dare valore alle cose importanti, la scuola anzitutto. Non è solo un problema di maggiori finanziamenti, è proprio una questione etica e culturale. Se non si vuole correre il rischio di recrudescenze “autoritaristiche”, capaci di dare sfogo alla rabbia sociale e individuale che serpeggia per il Paese, è necessario che proprio nel periodo di maggior crisi il Paese esprima una direzione chiara di cambiamento centrata sulla sua progettualità futura, ovvero sulla scuola e la preparazione dei propri giovani in quanto futuri cittadini. E questo vuol dire ritenere prioritarie le questioni della riforma scolastica, della sistemazione del personale (docenti precari, ATA, dirigenti) ma partendo da un progetto formativo per i giovani e non da esigenze statali e/o sindacali sussidiarie di un’inadeguata politica del lavoro. Questo significa dare “valore” alla scuola, alla sua centralità che deve tornare a essere di rete e non, com’è adesso, solitudine in un deserto di corresponsabilità istituzionali, pubbliche e private. La strada è lunga e quel che si vede è tutto in salita. Quel che non si può accettare più è l’idea che le esigenze di risparmio partano dalla scuola, mentre là dove esiste la ricchezza del Paese, quella esplicita e quella nascosta, ci si limita a provvedimenti la cui incidenza è ridicola in confronto ai sacrifici sopportati dal settore dell’istruzione e di chi ci lavora. L’esperienza ci ha dimostrato che investire su chi dovrebbe produrre lavoro, ha significato poco lavoro e precario e, soprattutto, grandi capitali privati nei paradisi fiscali. Al contrario, un’esperienza ancora più lunga, ha dimostrato che investire nell’istruzione rende le persone capaci di trovarselo e inventarselo da sole il tanto agognato lavoro.
(articolo apparso nell’ott 2011 su: www.ilvespro.it)

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