A cosa serve il dolore

Se si chiede cosa sia il dolore, la risposta più frequente fa ricorso ad una metafora: è una ferita. Concordo e, credo, concordiamo tutti. Quella meravigliosa testa pensante che è stata Oriana Fallaci, in uno dei suoi indimenticabili testi scriveva: “il dolore dell’anima è una malattia molto più grave della gamba rotta e della gola infiammata, le sue ferite sono assai più profonde e pericolose di quelle procurate da una pallottola o da una scheggia. Sono ferite che non guariscono, quelle, ferite che ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare” (Insciallah, 1990).

Oriana non era donna a cui mancassero le parole, i sinonimi, le metafore. Eppure quanta insistenza sulla figura della ferita. Così che una breve riflessione sul dolore deve coniugarsi con questa aderenza semantica che lascia intendere un taglio là dove prima c’era un corpo pieno, chiuso. E un taglio è una violazione, un’apertura inusitata, imprevista, improvvisa, indesiderata. Così che la metafora, immediata a comprendersi, ha la sua ratio proprio nella parte sepolta, quella non detta. L’area di significato che sta dietro alla parola ferita, rimanda ad altre cose, altri concetti e opposizioni come quello di pieno e di vuoto, di integro e rotto o violato, di sano ed insano o malfermo e da lì, per analogia, di bene e male, di giusto e sbagliato. Motivo per cui, da questa nascosta catena, emerge istintivamente un significato negativo che si associa alla parola dolore per il tramite della metafora linguistica: ferita. Quando è noto che in natura il dolore ha una funzione positiva: allarme, avviso. Se ne trascina un residuo nel linguaggio medico: sintomo, non a caso un ambito recintato da una cornice culturale che la relega nella periferia della nostra coscienza perché tutto ciò che è medicina è associato alla condizione dello star male, eventualità negletta nella cultura occidentale (a differenza di altre culture, antiche e moderne, che comprendono la malattia in un universo simbolico che conferisce senso anche alla malattia e allo star male in vista di un vantaggio ulteriore). 

Tirando le conclusioni di una riflessione che non vuole diventare un saggio, credo che il dolore sia da interpretare sempre come “apertura” (ferita, taglio…). E la domanda filosofica che ci si deve porre ogni volta che un dolore ci colpisce, ci sceglie, ci individua e ci fa soffrire, la domanda che dovremmo porci tutti per non rendere gli altri vittime della nostra insulsa (seppur comprensibile) rabbia come reazione al dolore, è: in questo squarcio che si è aperto cosa posso vedere? dentro questo spazio che si è creato all’improvviso, dentro questa spaccatura che si rende visibile all’interno, cosa devo e posso cercare? La risposta la sa ciascuno di noi, di sicuro c’è una opportunità, in ogni dolore, per guardarsi dentro. Il trauma del dolore non è un buon motivo per disperarsi, piuttosto una buona occasione per guardarsi dentro e conoscersi meglio.

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